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 2018  luglio 21 Sabato calendario

Cacciatore, non dire dove vai, la tigre siberiana saprà dove trovarti

Una operazione coraggiosa quella di Adelphi nel pubblicare un saggio antropologico, scritto negli anni Cinquanta da Éveline Lot-Falck, una etnologa franco-russa, allieva di Lévi-Strauss sui riti di caccia dei popoli siberiani. Coraggiosa perché le monografie etnografiche sembrano fuori moda, ma la bellezza e la precisione della prosa rendono questo racconto affascinante e quanto mai moderno. Infatti, pur seguendo il metodo etnografico classico, Lot-Falck ci offre uno sguardo sulle diverse popolazioni della Siberia quanto mai dinamico, non trattandole come isolate e fuori dalla storia, ma inserendole nei flussi di cambiamento da cui vengono toccate, sebbene talvolta marginalmente e nel contesto sovietico dell’epoca in cui dominava una tendenza alla «russificazione» dei popoli artici.
Éveline Lot-Falck ci introduce nel mondo della caccia, quello a cui jakuti, tungusi, buriati, ciukci e molti altri popoli siberiani devono la sopravvivenza, perché come ci dice l’autrice: «Nelle regioni in cui la vegetazione offre risorse abbondanti, l’uomo vivrà soprattutto di raccolta. Nelle steppe, praticherà l’allevamento. In Siberia, le condizioni ambientali lo hanno condotto a farsi cacciatore». 
La caccia implica necessariamente un rapporto particolare con l’animale con cui l’uomo vive una competizione, che però non è alla pari. L’animale, nella concezione dei popoli siberiani, al pari dell’uomo, possiede una o più anime e un linguaggio, inoltre spesso comprende il linguaggio umano, mentre il contrario è vero solo per gli sciamani. Solo i pesci non hanno un’anima, gli altri animali sono invece in contatto con le divinità e sono più vicini dell’uomo alle forze della natura che spesso si incarnano in loro. Sia gli spiriti benigni sia quelli maligni appaiono in forma di animali.
Anche la linea di separazione tra uomo e animale non è così netta come nel pensiero occidentale, l’animalità per i siberiani è uno degli aspetti dell’umanità e non il meno importante. Infatti, le antiche leggende narrano di un’epoca idilliaca in cui l’uomo si nutriva di piante e non uccideva gli animali. Questo stretto rapporto tra umani e animali spinge l’autrice a riflettere sulla questione del totemismo, verso la quale è molto cauta, per non rischiare di classificare sotto quel termine «contenitore» pratiche molto diverse tra di loro. Anche perché la Siberia di quegli anni aveva già subito una forte russificazione e l’impatto del comunismo, per cui il totemismo apparteneva già a un lontano passato e ne sopravvivevano solo deboli tracce. Solo il suo carattere sociale sembrava sopravvivere.
L’autrice ci accompagna poi in un viaggio affascinante nel pensiero religioso, che finisce per essere strettamente connesso con la caccia. Infatti, visto il legame tra animali e sacro, sono molti gli spiriti che governano questa attività e di cui è necessario garantirsi l’appoggio, dai grandi signori della natura ai semplici «guardiani», dagli spiriti dei defunti fino agli animali stessi. Ecco il perché della ritualità che già accompagna i preparativi, tenuti rigorosamente segreti per evitare di attirare l’attenzione dell’animale. Gli animali comprendono il linguaggio umano, perciò il nome dell’animale pronunciato da un uomo, giungerà al suo orecchio e da quel momento in poi, l’animale starà in guardia o cercherà di vendicarsi delle intenzioni malvagie del cacciatore. Al momento della partenza nessuno deve chiedere al cacciatore dove sta andando e se lungo la strada incrocia un passante che lo interroga, manterrà il silenzio. Un incontro con un pope (per i russi), un lama (per i buriati), un mullah (per gli azeri) è di cattivo augurio, perché un sacerdote rappresenta una sorta di nemico delle antiche divinità.
Dopo aver ucciso la preda il cacciatore non deve ostentare la vittoria, anche abbattuto l’animale resta temibile e ciò che di esso sopravvive si mostrerà irritato se ci si comporta male nei confronti del suo corpo. Gli animali riferiscono ai loro simili come gli uomini si sono comportati nei loro.
Per placare la collera dell’animale, gli si chiede perdono e si prova a presentargli la sua morte come accidentale, assicurando che il cacciatore non ha nulla a che vedere con questa morte, anzi se ne dispiace. Cerca poi di incolpare qualcun altro: «Lo Jucaghiro accusa lo Jacuto, lo Jacuto incrimina il Tunguso e così via, ma è più volentieri ai russi che si accollano questi peccati. Durante il banchetto che segue l’uccisione dell’orso, ogni Tunguso si inchina all’animale prima di mangiare e gli assicura che è stato ucciso da un russo». Si cerca così di pacificare lo spirito della vittima, placarne la collera, perché bisogna pensare al futuro, convincere l’animale a ritornare in una prossima incarnazione. Il ciclo vita/morte, uomo/animale deve continuare.