Tuttolibri, 21 luglio 2018
Da Garibaldi a Mussolini alle battaglie vegane: la storia della protezione degli animali in Italia
Siamo un paese di pet lovers. Amiamo i nostri animali da compagnia, spendiamo cifre folli per loro, sappiamo coccolarli e viziarli, fino a considerarli dei figli e parte integrante della famiglia. Nello stesso tempo, benché la sensibilità sia più diffusa e sviluppata, chiudiamo spesso un occhio davanti allo sfruttamento in campi come l’alimentazione o l’abbigliamento. Una contraddizione e un orientamento schizofrenico che fotografa la diversità di istanze, approcci e consapevolezze». Realizzare uno studio analitico sull’evoluzione dell’attivismo zoofilo, per fotografare attraverso la relazione tra umani e animali lo «stare insieme di una comunità»: è quello che ha fatto Giulia Guazzaloca, docente di Storia contemporanea presso l’Università di Bologna, autrice dell’originale saggio Primo: non maltrattare. Un viaggio storiografico, dalla nascita ai giorni nostri, attraverso il pensiero e le azioni relative alla protezione degli animali in Italia.
Guazzaloca, esiste un «anno zero», un punto di partenza, di questo percorso?
«Da un punto di vista storico sì, ed è il 1871, anno in cui Giuseppe Garibaldi a Torino, su impulso della contessa britannica Anna Winter, decide di fondare con il medico Timoteo Riboli la “Società torinese protettrice degli animali”. È la prima istituzione ufficiale e dà il via alla nascita di tantissime realtà locali simili. Garibaldi era un cacciatore, quindi non possiamo definirlo un’animalista nel senso moderno del termine, ma aveva uno spiccato amore per gli animali a contatto con l’uomo, come asini e cavalli. E proprio un suo asino, da anti clericale quale era, lo aveva ribattezzato con il nome di “Pio IX”».
Animalismo e protezione animale: sono la stessa cosa?
«Decisamente no. Animalismo è una parola relativamente nuova, coniata nel 1982 per sancire una svolta sostanziale dal punto di vista dell’animale. Si abbandona l’idea di proteggere creature deboli e indifese per un senso di pietas: non è più una leva compassionevole ed emotiva, ma si comincia a parlare di diritti. Non ci si limita più, come era stato a fino a quel momento, a migliorare le condizioni di vita degli animali e a ridurre le sofferenze: con un approccio razionale si vuole evitare lo sfruttamento. Come dice Alberto Pontillo, teorico e organizzatore del movimento antivivizionista e padre del termine “animalismo”, per capire gli animali “bisogna stare dalla parte loro».
Chi anni prima aveva fortemente sostenuto, almeno in apparenza, la tutela degli animali era stato Benito Mussolini: il Duce aveva spirito animalista?
«Mussolini abbraccia la causa per vari motivi, ma nessuno di questi legato al riconoscimento della dignità della vita animale. Nel web girano fantomatiche notizie riguardanti concessione di diritti agli animali che lui avrebbe fatto, ma sono tutte fake news. La sua finalità principale era propagandistica: voleva dimostrare, in primis agli occhi stranieri, la modernità del regime fascista, poiché il tema della protezione era preso come parametro per valutare il grado di civiltà di una Nazione. Poi c’era un tema economico: a suon di opuscoli si raccomanda che le bestie vengano trattate bene, nutrite e sfamate, ma solo per difendere il patrimonio zootecnico del Paese. Nel 1938 poi, nella logica di costruire uno Stato totalitario, scioglie e centinaia di società zoofile e le incorpora nell’unico “Ente nazionale fascista per la protezione animale”».
Politicamente stare dalla parte degli animali porta voti? È una strada per il consenso?
«Non lo so se porta voti. L’attenzione improvvisa verso gli animali di un politico come Silvio Berlusconi, sempre molto capace di captare dove tira il vento, mi aveva fatto pensare che potesse esserci una qualche correlazione diretta. Ma così non è stato, così come non sembra smuovere molto le cose un movimento come quello di Michela Brambilla. Quello che è certo è che tutti i partiti nelle ultime elezioni hanno trascurato dai programmi le tematiche animaliste».
Cani e gatti quando invece sono diventati così centrali nella nostra quotidianità?
«Diventano centrali, come problema, già nel periodo fra le due guerre, quando si diffonde la piaga del randagismo e la paura della rabbia. Si cominciano a costruire i primi rifugi e si cercano di attuare politiche in grado di contenere il fenomeno. Cani e gatti diventano invece parte integrante della nostra quotidianità negli anni ’90, con il boom degli animali da compagnia. Si tratta del pet keepenig, ed è protagonista di una rivoluzione sociale, culturale ed anche economica. In Italia i pets, gli animali domestici, sono quasi 60 milioni: numeri enormi, non collegati alla militanza animalista, ma la loro vicinanza ha sicuramente contribuito a sviluppare un’attenzione più diffusa e matura verso la sofferenza animale. Anche se, come già detto, da una parte rischiamo di umanizzare troppo gli animali e dall’altra non prendiamo posizioni nette davanti a casi di oggettivo sfruttamento».
Veganesimo e vegetarianesimo sono le forme più moderne di non maltrattamento?
«I motivi che portano una persona ad essere vegana o vegetariana sono diversi: c’è chi lo fa per rispetto degli animali, chi per motivi etici, chi per ragioni prettamente fisiche. Sicuramente ci sono nuove sensibilità e un’attenzione più profonda verso temi quali la salute, l’ambiente e la sostenibilità. Ma la riflessione teorica sulla “questione animale” è ancora tutta aperta, una riflessione che ha bisogno di altruismo da parte nostra: gli animali infatti non possono rivendicare in prima persona i loro diritti».