La Lettura, 22 luglio 2018
Di giorno lavorano il ferro. Di notte suonano il metal
Ognuno ha i suoi motivi per mettersi a suonare. Per noia, perché lo fanno gli amici, per diventare ricco e famoso. Ma se dopo una giornata di lavoro a battere il ferro, invece di scappare a bere una birra o fare lo scemo con le ragazze tu resti lì dentro, posi gli attrezzi e abbracci lo strumento e suoni tutta la notte, allora vuol dire che lo fai perché hai addosso una passione spaventosa, e bisogna correre ad ascoltarti.
A Livorno, nell’officina dove alla fine degli anni Settanta i fratelli Fabio e Roberto Cappanera si sono inventati una specie di sala prove. E se di giorno lavorano il ferro, di notte suonano il metallo pesante, insieme a Enzo Mascolo che fa il benzinaio nella piazza lì davanti. Si aggiungono Marcello Masi alla seconda chitarra e Johnny Salani alla voce, poi sostituito dal gigantesco Daniele «Bud» Ancillotti, e il risultato è una potenza sonora che scuote la città e attira una folla di entusiasti, trasformando ogni serata di prove in un concerto.
Molto meno entusiasti sono gli abitanti dei palazzi intorno, e infatti l’ennesima notte di rock viene interrotta dai carabinieri. Che si fanno strada tra tamburi, chitarre e strambi soggetti dai capelli lunghi, e uno dei militi con tipico accento da barzelletta commenta: «Certo che questa officina è proprio strana». Battezzando così, senza saperlo, una banda destinata a scrivere la storia dell’heavy metal italiano.
Ma se il nome è un omaggio dei carabinieri, alla Strana Officina nessuno regalerà più niente, in una nazione che ha col rock un rapporto difficile e perverso: i pochi gruppi forti in circolazione li ignora, e preferisce quelli che vanno sotto l’agghiacciante categoria di «rock italiano», ovvero la stessa roba dei cantautori e di Sanremo, però suonata con una chitarra appena più ruvida e una giacca di pelle al posto di quella normale.
Dalle nostre parti insomma la vita è dura per chi sa davvero cos’è il rock, e questo è un grande problema perché la Strana lo sa tanto bene. È un amore che le brucia da sempre nelle vene, ma si incendia irrimediabilmente nell’estate del 1980, quando i ragazzi partono per un epico viaggio col camion di famiglia fino al Reading Rock Festival. Restano stregati da divinità come Iron Maiden, Whitesnake, Angel Witch e Ufo, e tornano a casa con un carico di determinazione, tonnellate di speranze e pure una canzone nuova, Viaggio in Inghilterra, il cui testo ribolle della ruggente innocenza di quegli anni, quando quel che desideravi non stava lì preconfezionato a un clic di distanza. Per arrivarci dovevi chiudere gli occhi e spalancare il cuore ai sogni, che ti chiamavano prepotenti giorno e notte finché non cominciavi a corrergli incontro.
E la corsa scalmanata della Strana Officina passa per i primi avventurosi metal-festival nostrani, come lo storico Certaldo Fest del 1983, dove i gruppi sul palco si confrontano a colpi di canzoni, mentre il pubblico di metallari si confronta a schiaffi e cazzotti coi ragazzi locali, di rigida tradizione punk. Il risultato è una notte meravigliosa, perché in un mondo dove tutti ti ignorano, anche i lividi addosso sono un modo per sentire che esisti.
E tutta questa energia, l’anno dopo cola dentro il primo mini-Lp della band, solo quattro canzoni ma destinate a diventare classici, la cui potenza ti travolge ancora oggi scavalcando la mancanza totale di mezzi e una registrazione tanto piatta che schiaccerebbe un mammuth. Ma la magia di questa banda è così, ti salta addosso e te li fa sentire subito fratelli, ascolti la Strana e insieme ascolti te stesso, i tuoi sogni, le paure, le lotte tutte di una vita nata storta e sempre incasinata. E se non provi un brivido che ti frusta l’anima, allora significa che sei morto da un pezzo e nessuno ha avuto il coraggio di dirtelo.
La ritmica implacabile di Enzo al basso e Roberto alla batteria, gli assoli fulminanti e insieme melodiosi di Fabio, le parole del Bud così diverse dai soliti testi italiani, sempre zeppi di quella triste erudizione liceale da primi della classe. Quelli della Strana invece sono bombe di sincerità, ignoranti di ogni posa, con dentro quella forza vera e operaia di cui gli altri ragionano ma tenendosene lontani, per non rischiare di sporcarsi. Un impeto selvaggio che se ne frega pure della metrica, perché quel che la Strana canta è così urgente da piegare il tempo e il verso, come il ferro si piega e si modella quando lo prendono a martellate incandescenti, ogni giorno della loro vita.
Batti il martello, lavora!
Batti il martello e il ferro,
spacca la tua dignità.
Dimmi che il lavoro è bello,
ma la paga non va…
caos, velocità, Officina!
Lavora, lavora, lavora!
Sì, perché la musica per la Strana non sarà mai una professione a tempo pieno. Sono grandi musicisti, ricevono offerte golose per trasformarsi in turnisti e suonare alle spalle di tanti cantanti famosi, ma rifiutano: che senso ha vivere di musica, se per farlo devi uccidere la tua?
E allora avanti così, a testa bassa e insieme altissima, con l’unica concessione del cantato in inglese per farsi conoscere oltre confine. L’entusiasmo invece non cambia e non si smorza: tutti i giorni al lavoro in officina, le sere alle prove e ai concerti, e quando arriva la domenica e la gente normale si riposa, loro si ritrovano ancora lì dentro per selvagge jam session coi musicisti della zona, vogliosi di suonare i classici del rock.
E in quelle mischie incandescenti, i fratelli Cappanera buttano pure due bimbi piccoli, il loro nipote Dario alla chitarra e Rolando, figlio di Roberto, alla batteria come il padre. Gli hanno insegnato solo i primi rudimenti, perché il resto è un’emozione che devono trovarsi dentro e imparare a trasformarla nel loro suono. E loro ci provano tutto il giorno, mentre un’orda di vecchi rocchettari li massacra a ogni errore, e alla fine manda a casa i due cuccioli con la più livornese delle sentenze: «Boia, bimbi, fate caà!».
Ma pure questi commenti bruschi fanno piacere, se arrivano da parenti che sono ormai leggende del metal italiano, finalmente eternate su un disco vero e proprio solo nel 1989, a più di dieci anni dalla fondazione del gruppo. Rock and Roll Prisoners è una meraviglia che duella con le grandi uscite internazionali, e fa innamorare una generazione di ragazzi dal cuore metallico. Che prima si esaltano ascoltando l’Lp, poi restano senza fiato a scoprire che questa band micidiale vive a un passo da casa loro. E imparano così che la grandezza non conosce quartieri, e se hai dentro qualcosa di urgente che picchia per uscire, non ha senso sprecare i giorni a lamentarti di essere nato nel posto e nel tempo sbagliati, devi stringere i denti e insistere, perché questo disco te lo grida forte da ogni solco, che si-può-fare.
Apprezzamenti arrivano pure dalle riviste straniere, sempre pronte a seppellire le band italiane sotto valanghe di luoghi comuni a base di pizza, mafia e mandolini. Ma il trionfo assoluto, il picco vertiginoso della loro cavalcata, è l’Open Air Festival di Lamone, vicino Lugano, dove la Strana suona insieme a gruppi giganteschi come i Saxon, e assaggia finalmente il successo: camerini veri, birra e cibo a disposizione, un’organizzazione seria, un pubblico smisurato che li chiama sventolando pugni borchiati e bandiere tricolore. La Strana sale sul palco, e prima di attaccare guarda questo spettacolo incredibile che la riporta alle emozioni di nove anni prima al festival di Reading. Solo che invece di sognare cogli occhi in alto verso le band, stavolta è lei a incendiare il mare di cuori lì davanti con una prestazione micidiale. È un attimo glorioso, indimenticabile, eppure solo un attimo. Perché ormai ecco gli anni Novanta, cresce il dominio di Mtv, dei video, di quell’elemento letale – l’immagine – che con la musica non dovrebbe entrarci per niente, e ci condanna ad ascoltare gente sempre nuova e carina e ammiccante, che non ha niente da dirci.
Arriva pure l’ondata del grunge, che impazza su radio e tv, e tante band virano verso quel suono per intercettare la nuova moda e restare a galla. È facile farlo, se suoni per soldi o per metterti in mostra. Se invece hai dentro una passione vera, quella è una belva selvatica e indomabile, e non puoi mica dirle dove andare. Puoi solo tenerti stretto mentre scalcia e corre nella giungla inesplorata, e ti porta dove vuole lei. E siccome la loro passione vuole andare dritta per la sua strada, la Strana Officina prosegue con lei, pronta ad affrontare tutto quello che la strada porterà.
Tutto, ma non quel che succede la sera del 23 luglio di venticinque anni fa, quando Fabio e Roberto viaggiano sulla Firenze-Pisa-Livorno, una moto là davanti perde un borsone e loro perdono il controllo della macchina, perdono per la prima volta la loro gloriosa direzione, e addio.
Addio a due musicisti fantastici, al loro suono inimitabile, addio a un gruppo che i muri li ha sempre presi in pieno a tutta forza e buttati giù. Ma quella sera finisce in un altro modo. Anzi, quella sera finisce tutto. E quanta paura fa, pensare che tanti anni di talento e sudore, che una vita di passione e coraggio possa chiudersi così, in un attimo all’improvviso, come una corda che si spezza rovinando sul più bello una canzone favolosa.
E però no, non è finita davvero. Perché se Fabio e Roberto non ci sono più, il talento smisurato della famiglia Cappanera è ancora qua: schizza fuori da quei due bimbi tartassati nelle caotiche jam session della domenica, che dopo anni di lezioni severe e affettuose prese in giro sono diventati musicisti incredibili, e sanno unire la potenza selvaggia della passione con la precisione della tecnica. Salgono sul palco insieme a Enzo e al Bud, e di colpo la Strana torna a vivere con quel suo misto di cuore, testa e budella, che ora come allora travolge il pubblico incredulo e felice.
«Ho sentito dire che il rock and roll non può morire», cantavano all’inizio della loro avventura, e lo cantano ancora quest’estate, venticinque anni dopo l’incidente, mentre i brani storici si alternano al nuovo repertorio e la Strana macina chilometri dritta per la sua strada.
Andarla ad ascoltare è come tornare in quella magica officina, dove la passione martella la dura realtà e la piega verso quel che sogniamo. E se anche stavolta arriveranno i carabinieri a dirci che siamo strani, noi gli risponderemo che lo sappiamo da soli: siamo nati così, non potremmo cambiare nemmeno volendo, e non vogliamo per niente!
Mentre L’Autostrada dei Sogni va, e la Strana Officina la suona fino alle ultime parole di questo pezzo stupendo, che canta lei e cantiamo noi, e insieme pure Fabio e Roberto, e tutte le facce, i posti e le emozioni che hanno riempito questo viaggio incasinato e clamoroso che può essere la vita:
la tua storia non è finita qui,
la tua gloria risplende nel sogno per te.