La Lettura, 22 luglio 2018
L’ortopedico della Vittoria
Di che cosa avrebbe bisogno questa bella ragazzona (più di un metro e 95 di altezza per 408 chili) dal nobile profilo classico e dall’espressione enigmatica afflitta da una pelle verdastra, da problemi allo scheletro e alle articolazioni, da un «appesantimento» generale? Se Vittoria, che un tempo si chiamava (forse) Afrodite, fosse stata una creatura normale verrebbe da rispondere che, per prima cosa, dovrebbe farsi subito visitare, nell’ordine, da un buon dermatologo, da un buon ortopedico, da un buon gastroenterologo.
Vittoria già Afrodite non è però umana. Lo dimostrano, in maniera inequivocabile, le sue due grandi ali, anch’esse comunque colpite da progressivo irrigidimento. È una dea scolpita in bronzo in epoca romana, una scultura realizzata con il metodo della «fusione a cera persa indiretta» (molto utilizzato nella classicità per la creazione di grandi statue cave), ispirata a un modello ellenistico del III secolo avanti Cristo, databile attorno al secondo quarto del I secolo dopo Cristo. È quella Vittoria alata diventata uno dei simboli del Museo di Santa Giulia di Brescia, l’antica Brixia, donata con molta probabilità alla città nel 69 dopo Cristo dall’imperatore Vespasiano per festeggiare il successo ottenuto sugli eserciti rivali di Otone e Vitellio nella battaglia di Betriacum.
Anche le divinità hanno però, talvolta, bisogno di una remise en forme, soprattutto se, come nel caso della Vittoria alata, la loro pelle bronzea appare rovinata da incrostazioni e sedimenti (c’è persino un’ampia ferita alla base del collo); se la pesante struttura interna di ferro, legno e bulloni (risalente al 1834) che permette di agganciare al busto le braccia e le ali mostra ormai i segni del tempo; se ancora misterioso rimane il contenuto di quel «guscio di donna». Con la testa rivolta leggermente verso sinistra, vestita di una tunica fermata sulle spalle e di un mantello che le avvolge le gambe, con le mani che sostenevano lo scudo di Ares (per specchiarsi, quando si chiamava ancora Afrodite; per scriverci il nome del vincitore, quando era diventata Vittoria). E con un piede sollevato che doveva poggiare sull’elmo dello sconfitto: una posa, la sua, che assomiglia a quella di una ballerina di flamenco.
Per curare tutte queste sue patologie, da giovedì 12 luglio, la Vittoria alata è affidata alle cure dei «dottori» dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, una team di dermatologi, ortopedici e gastroenterologi, non degli uomini, ma delle sculture, degli affreschi, degli altari in marmo, dei polittici su tavola e degli arazzi, guidati da un «primario-soprintendente», Marco Ciatti, che (come tutti i primari) invita alla cautela e all’importanza «della diagnosi e dello studio del caso». Una novantina le persone che lavorano oggi nella struttura nata nel 1975 dalla fusione tra l’antico Opificio fondato da Ferdinando I de’ Medici nel 1588 e il Laboratorio di restauro della Soprintendenza. Un team che, per restare sempre in materia di bronzi, di recente ha risanato la Porta del Paradiso e la Porta Nord del Ghiberti dal Battistero.
«La Lettura» ha seguito in diretta il viaggio della Vittoria alata da via dei Musei 53, Brescia, a via degli Alfani 78, Firenze. Un viaggio iniziato con la divisione fisica delle braccia e delle ali dal resto del corpo, proseguito con l’inscatolamento dei vari frammenti (cinque in tutto) a opera di un gruppo di tecnici in guanti bianchi, continuato con il caricamento su un piccolo camion bianco (grazie a scale, argani, piattaforme, ganci, catene) e poi via in autostrada (prima l’A21, poi sull’A1), 294 chilometri da percorrere a velocità di crociera. La Vittoria, uno dei Grandi Bronzi di Brescia ritrovati nel luglio del 1826 insieme con altre quattro teste imperiali in un’intercapedine del Capitolium (l’antico tempio romano), è partita alle 18.20 di mercoledì 11 luglio, dopo una cerimonia di addio alla città e al museo, con tanto di discorsi ufficiali di commiato e di ingresso libero per i cittadini. Il suo rientro a Brescia è previsto per fine 2019, in una nuova collocazione nel Capitolium, nella cella destra.
Prima dell’arrivo a Firenze, una sosta dalle 2 alle 5 in un anonimo (ma super-sorvegliato) deposito di Calenzano, alle porte di Firenze, un piccolo riposino che l’ha fatta sbarcare all’Opificio alle 6.45 di giovedì. Alla vigilia della partenza, le ultime analisi avevano confermato la necessità dell’intervento: le termografie, riprese fotografiche realizzate scaldando leggermente il metallo e che servono per monitorare lo stato di conservazione del materiale; le estensimetrie che hanno captato le micro-emissioni acustiche del metallo, registrando i «gemiti», percepibili grazie a speciali sensori, della statua in sofferenza sotto il peso delle ali e delle braccia.
Ora la Vittoria è finalmente nelle mani dei suoi medici (oltre a Ciatti, l’archeologa Anna Patera, le restauratrici Annalisa Brini e Stefania Agnoletti). Distesa su un tavolo simil-chirurgico, ancora impacchettata nell’etaphon (il materiale che l’ha avvolta e protetta durante il viaggio), in una stanza singola creata per l’occasione (in precedenza per lei, solo un altro intervento, nel 1948, all’Istituto centrale del restauro di Roma). Con accanto le sue braccia e le sue ali «ingiustamente considerate meno belle» e che «il restauro valorizzerà». Primo passaggio: la rimozione del pesante piedistallo al quale è ancorata. Sempre nell’ambito di un progetto, coordinato da Luigi Maria Di Corato (direttore generale della Fondazione Brescia Musei), Francesca Morandini (responsabile del Servizio collezioni e aree archeologiche dei Musei Civici) e Anna Patera: costo stimato, 919.514 euro, di cui oltre 600mila già raccolti grazie all’Art Bonus e a un gruppo di mecenati. Un progetto che prevede lo studio dettagliato delle superfici bronzee «esaminate con diverse tecniche analitiche e micro-campionamenti degli strati superficiali, per escludere l’eventuale presenza di processi di alterazione e per carpire le informazioni» nascoste fra le pieghe dei suoi eleganti panneggi.
Tra i misteri da risolvere c’è quello della sepoltura della Vittoria alata. Perché ancora non si sa bene se la statua sia stata interrata per preservarla, insieme agli altri bronzi (tra cui quattro teste), dalla fusione per battere moneta. Oppure se per salvarla, durante l’invasione di Goti e Unni, dalla fusione per ricavarne invece armi. O, ancora, se per evitarne la distruzione quando il paganesimo, dopo l’editto di Teodosio, venne sostituito dal cattolicesimo come religione ufficiale dell’impero.
Al termine del restauro verrà poi il tempo di tornare a casa, a Brescia, seguendo lo stesso itinerario, in senso inverso, ma senza la sosta tecnica di Calenzano. Non senza (altre) novità: «Non sarà più a Santa Giulia – dice Di Corato – ma nel suo luogo d’origine, nella cella destra del Capitolium, su uno speciale basamento antisismico», compreso nel progetto. Una nuova collocazione («Stiamo ancora valutando la fattibilità in termini di sicurezza e di adeguamento microclimatico») che forse obbligherà a una più generale riorganizzazione del percorso museale.
I medici dell’Opificio procederanno intanto «a posizionare un nuovo supporto per le ali e le braccia» (operazione che alleggerirà notevolmente la statua) e alla pulitura visto che la diagnosi pre-ricovero parlava di «uno stato diffuso di alterazione della superfice esterna con ampio margine di recupero». Una diagnosi che lascia ben sperare e che potrebbe far ipotizzare una nuova lucentezza con qualche sfumatura dorata, anche se il «primario» Ciatti e l’archeologa Patera si dimostrano prudenti (forse per non bruciare una possibile sorpresa): «Nessun dottore può ringiovanirci, ma certo può farci stare meglio, è quello che faremo».«Aspettiamoci di scoprire un’altra Vittoria – dice Morandini – e, magari, di rimetterne in discussione origini e datazione». Come? «L’interno del bronzo verrà svuotato, un intervento che non è stato mai eseguito prima, per trovare eventuali residui delle terre di fusione che potrebbero aiutarci a capire meglio la sua storia». La storia di una scultura amata da Carducci che la celebrò nell’ode Alla Vittoria, del 1877, dopo due visite a Brescia; da d’Annunzio, che nel 1934 ne commissionò una copia a Renato Brozzi per collocarla nel Tempietto del Vittoriale. E da Napoleone III, al quale nel 1861, dopo la vittoria nella battaglia di Solferino, ne venne donata una copia in bronzo fusa, oggi conservata al primo piano dell’Ala Richelieu del Louvre.