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 2018  luglio 22 Domenica calendario

I pittori del corpo

Il corpo nella storia dell’arte. Il corpo come linguaggio. Mezzo di comunicazione. Luogo glorioso. Materia flessibile. Territorio promiscuo. Spazio mistico. Infine, sudario da violentare, da metamorfosare. Da Leonardo a Barney, passando per Caravaggio, Rembrandt e Munch: il corpo è stato il «problema» decisivo per alcune tra le più alte voci della modernità. In questa ampia cartografia, uno snodo fondamentale è costituito dalla «linea inglese», cui la Tate Britain di Londra dedica un’ampia mostra, All Too Human (fino al 27 agosto), in cui sono presentate circa cento opere realizzate da alcuni tra i maggiori protagonisti dell’arte britannica. 
Il percorso ruota intorno a due tra gli ultimi umanisti del XX secolo: Lucian Freud e Francis Bacon. Insieme con Picasso e Braque e con Johns e Rauschenberg, tra le più straordinarie «coppie» del Novecento. Tra di loro, corrispondenze, assonanze, ma anche differenze. Analoghe le strategie. Diversi gli approdi. 
Siamo dinanzi a due artisti «maledetti», eredi novecenteschi di Tiziano e di Velázquez. Per loro, fare arte significa, innanzitutto, saper dipingere. E saper guardare il visibile, penetrandone i misteri. Conoscere le tecniche e le regole tradizionali. E, inoltre: servirsi di uno tra i generi classici della storia dell’arte – il ritratto – reinventandone la sintassi. Dipingere individui? Per Freud e Bacon, vuol dire compiere esercizi laici di preghiera: vincere i limiti temporali dell’esistenza umana, la fragilità della pelle, la vulnerabilità della bellezza. Non indulgere in trovate d’impronta post-dadaista. Né naufragare nel mare aperto dell’astrazione. Ma affidarsi a ritualità antiche. Seguire tempi lunghi di esecuzione. Affrontare ripensamenti, inquietudini, ansie. Attingere a esperienze private, che poi devono essere dissolte nella trama di figurazioni estreme. Nascono così palinsesti nelle cui pieghe si celano echi spesso indecifrabili di vicende biografiche. 

Si tratta di drammaturgie concepite sempre dentro spazi chiusi. Freud tende a eseguire i ritratti dal vero nel suo studio. Lì, ricorrendo a consuetudini accademiche, si comporta come un despota, che detta ai sudditi principi cui attenersi. Una pratica estenuante. Costretti ad affrontare sedute che possono durare anche un anno, i suoi modelli sono obbligati a non cambiare mai la postura originaria e a indossare sempre gli stessi abiti. «Qualcosa a metà tra la meditazione trascendentale e una visita dal barbiere», ha ricordato il critico Martin Gayford. 
Anche Bacon è un pittore di interni. Che, tuttavia, non si limita a «dialogare» con uomini in carne e ossa: non di rado muove dagli scatti fotografici di John Deakin (in mostra a Londra), nei quali appaiono i suoi amici e i suoi amanti. Sono materiali che egli, spesso, nelle sue tele, assume e rende irriconoscibili. 
È solo nell’atelier-antro che, per Freud e Bacon, si può davvero rivelare il corpo. «La cosa più presente, più costante e più variabile che esista», come scriveva Valéry. L’oggetto plastico per eccellenza. È, questa, la grande ossessione che accomuna i dioscuri dell’arte inglese. Un corpo non difeso, né mediato dalla ragione e neanche velato dallo spirito. Un corpo esibito non come sovrastruttura, ma nella sua dimensione immanente, fisiologica. Denudato. Spogliato. Desacralizzato. Privo di ogni trascendenza. È lì che abita il senso stesso dell’essere. 
Per «scrivere» il corpo, però, Freud e Bacon seguono sentieri diversi. Oscillando tra memorie rinascimentali e suggestioni espressioniste, Freud ci consegna personaggi vagamente michelangioleschi. Con il pennello, scolpisce corruzioni e deformazioni. Con colori pastosi e terrosi, racconta la materia di cui siamo fatti: anche il sangue diventa solido. Modella anatomie martoriate, simili a carte geografiche di celluliti e di vene varicose. «Voglio che la pittura faccia quello che fa la carne», ama ripetere. In lui, si possono cogliere ancora struggenti nostalgie per mondi lontani. Siamo di fronte all’ultimo anello di una storia plurisecolare, espressione di modalità anti-moderne di fare pittura e di vedere il corpo. A lui si ispireranno altri artisti esposti alla Tate Britain, tra i quali: Saville, Rego, Yiadom-Boakye, Sickert, Andrews e Souza. 

Più radicale, più estremo, Bacon. Che, pur guardando alla ritrattistica rinascimentale e barocca, pone le basi per un’arte post-umana. Il corpo, per lui, è origine e destino. Non è dimensione certa, ma tensione, processo in atto. Non conflitto risolto, ma pulsione ritmico-genetica. Bacon va al fondo della «brutalità delle cose», restituendo immagini intensificate. Rivela aspetti poco conosciuti, equilibri precari. Sgretola ogni oggettività. Non si allontana mai troppo dal visibile; ma non vi si avvicina neppure troppo. Accosta misura e dismisura, emergenze e distorsioni, spingendosi verso le vette del figurabile. Precipita nell’antro più oscuro degli individui che ritrae, destrutturando fisionomie, congiungendo la forma con l’informe. Consunti dall’interno, i «suoi» uomini non hanno nulla di superomistico. Penetrate da tenebre, agite dal «realismo dei nervi», le loro corporeità sembrano lottare con forze segrete che le consumano. Queste scarnificazioni sono rese attraverso pennellate vigorose, che corrono, esitano, si raggrumano. La pittura si fa struggente epodo, che si svolge in vani opprimenti. Prigioni asfissianti. Stanze che non hanno nulla di arioso. Qui le urla si spengono in latrati sordi, filmati al rallentatore. Tra i più lucidi interpreti di questo stile, Milan Kundera. Bacon, ha osservato lo scrittore, con un gesto scandaloso, porta alla luce l’«io sepolto». Nei suoi quadri le forme subiscono una distorsione ma non perdono il loro carattere di organismi viventi. Prodigioso nello svelare l’io del personaggio che «rabbrividisce» dentro la pelle e testimone della trasformazione dell’uomo in «carnaccia», in un groviglio che genera piacere o orrore, dipinge perturbanti interrogazioni sui limiti della soggettività. «Fino a quale grado di distorsione un individuo resta ancora sé stesso? (...) Dov’è la frontiera al di là della quale un “io” cessa di essere “io”?». Bacon è questo: il profeta di un diverso modo di guardare e di rappresentare il corpo, cui si ispireranno Kitaj, Auerbach, Brown (presentati alla Tate Britain) ma anche Baselitz, Dumas, Bourgeois e i protagonisti del Post-human come Orlan e Stelarc. 
Dunque, da un lato eroi monumentali, in via di disfacimento. Dall’altro lato, autentici lacerti da macelleria. Eppure, nonostante queste differenze, Freud e Bacon rivelano affinità profonde. Sono due artisti «corporali», le cui poetiche potrebbero essere interpretate ritornando a quel che aveva osservato Maurice Merleau-Ponty nella Fenomenologia della percezione, dove ci si interroga sul corpo, «abbozzo provvisorio» dell’«essere totale». Merleau-Ponty: «Sia che si tratti del corpo altrui o del mio proprio corpo, ho un solo modo di conoscere il corpo umano: viverlo, e cioè far mio il dramma che lo attraversa e confondermi con esso».