La Lettura, 22 luglio 2018
I raggi cosmici di Orione
Questa volta Francis mi ha giocato. Ha risposto con nonchalance alla mia domanda, mentre gustavamo gli asparagi al burro che entrambi avevamo ordinato. Se ci si trova a Bruxelles, ai primi di maggio, nel bel mezzo della stagione dei dolcissimi asparagi bianchi, non si può evitare il piatto di cui i belgi sono così orgogliosi. Con Francis siamo amici da tempo e ci incontriamo in Belgio almeno un paio di volte l’anno. Siamo entrambi membri dell’International Advisory Board (Comitato consultivo internazionale) dell’Università Libera di Bruxelles. Il nostro compito è giudicare le attività di ricerca dei gruppi di fisica e redigere un rapporto che riassume critiche o raccomandazioni.
Francis Halzen è il responsabile di IceCube, un esperimento collocato in Antartide, specializzato nella rivelazione di neutrini di alta energia provenienti dallo spazio profondo.
I neutrini sono onnipresenti in natura. Sono prodotti in grande quantità dalle reazioni nucleari che avvengono dentro le stelle, come il nostro Sole, ma nascono anche negli strati più interni di molti pianeti. Alcuni vengono emessi nel decadimento di altre particelle; altri vagano per l’universo da tempo immemorabile. Irraggiano in tutte le direzioni quando le stelle esplodono in supernovae, ma si organizzano in getti collimati quando sono prodotti da oggetti ancora più massicci come i buchi neri.
I neutrini sono alcune fra le particelle più elusive che abitano il nostro mondo materiale. Ogni secondo, a decine di miliardi, inondano ciascun centimetro quadrato del nostro corpo, e lo attraversano delicatamente, senza recare alcun disturbo. Sono leggerissimi e neutri e interagiscono molto debolmente con le altre particelle; per questo riescono a passare, da parte a parte, persino le stelle più massicce.
Per gli stessi motivi la rivelazione dei neutrini è una specie di incubo per i fisici sperimentali. Per avere una manciata di neutrini che collidono con i materiali dei rivelatori e registrare i piccoli segnali che ne derivano occorrono flussi imponenti e apparati di grandi dimensioni. Quando poi si vogliono studiare fenomeni rari, come i neutrini di alta energia, non ci sarà nessuna speranza di identificarne qualcuno se non si useranno rivelatori di dimensioni mostruose.
È il caso di IceCube, cubetto di ghiaccio, un nome ironico per un rivelatore che ha il volume di una montagna, un cubetto di un chilometro di lato. L’hanno realizzato in Antartide, vicino alla stazione Amundsen-Scott, per sfruttare la coltre di ghiaccio purissimo e trasparente che ricopre il continente. Hanno trivellato il ghiaccio, fondendolo, in 86 punti diversi, distanti 125 metri l’uno dall’altro e organizzati su una griglia esagonale. Sono andati in profondità per 2.450 metri e poi hanno calato, in ciascun pozzo, fissati su cavi robusti, sessanta sofisticati rivelatori di fotoni. Quando l’acqua si è ricongelata attorno a loro, i 5.160 rivelatori sono rimasti sepolti nel buio profondo del ghiaccio. E i loro occhi elettronici e ultrasensibili hanno cominciato a scrutare l’oscurità più totale alla ricerca dei più minuscoli lampi di luce. Quelli prodotti dai neutrini più sfortunati, quelli che muoiono sbatacchiando contro un nucleo, mentre attraversano la spessa coltre di ghiaccio.
Il tamponamento ad alta energia produce sciami di particelle cariche, talvolta accompagnate da muoni (particelle con carica negativa, ma di massa molto superiore a quella degli elettroni) che vengono emessi nella stessa direzione dei neutrini e si trovano, di colpo, a viaggiare più veloci della luce in quel mezzo. L’unico modo di evitare gli imbarazzi del caso, è comportarsi come gli aerei da caccia quando passano la barriera del suono. Ma anziché uscirsene con un fragoroso bang acustico i muoni si limitano a emettere minuscoli lampi di luce ultravioletta distribuiti su un cono caratteristico. Un effetto che per primo è stato registrato negli anni Cinquanta dal fisico sovietico Pavel Alekseevic Cerenkov (premio Nobel nel 1958), e che da lui ha preso il nome.
Ecco quindi che, quando un neutrino interagisce, i rivelatori di IceCube registrano una sequenza di segnali caratteristici che permettono di misurarne assieme energia e direzione da cui proviene. È questa l’informazione più importante, perché permette di risalire alla sorgente che ha emesso questi messaggeri delicati e leggeri che attraversano il cosmo muovendosi a velocità prossime a quelle della luce. I neutrini cosmici volano in linea retta, imperturbabili, ignorando le distribuzioni di massa ed energia che attraversano, totalmente insensibili ai campi magnetici che occupano le galassie e persino gli spazi intergalattici. Rivelarli significa capire da quale galassia provengono e cominciare a capire quale meccanismo li ha generati.
Quando ha cominciato a prendere dati IceCube ha registrato alcuni eventi spettacolari, che hanno lasciato tutti a bocca aperta: neutrini fino a 2000TeV (Teraelettronvolt), energie spaventose, centinaia di volte superiori a quelle che riusciamo a produrre in Large Hadron Collider (Lhc), l’acceleratore più potente al mondo situato presso il Cern di Ginevra. Nessuno, fino ad allora, poteva immaginare che vagassero per l’universo neutrini così energetici ed è subito partita la sfida per capire quale mostruoso acceleratore cosmico può produrre queste particelle.
Per questo, tutte le volte che ci incontriamo, chiedo a Francis se ci sono novità. Sono curioso di sapere se si comincia a capire qualcosa. E discutiamo a lungo delle possibili spiegazioni di eventi così spettacolari. A sua volta lui mi chiede di Lhc, se abbiamo scoperto qualche lontano cugino del bosone di Higgs o se ci sono segnali di supersimmetria.
Anche questa volta la nostra conversazione procede sui soliti binari ma Francis, in questa occasione, è più laconico del solito. Se la cava con un’affermazione piuttosto generica e lievemente enigmatica: «Forse cominciamo a fare luce». Poi si ferma e io attribuisco la brusca interruzione alla stanchezza e al jet-lag. In fin dei conti è appena arrivato dagli Stati Uniti e abbiamo passato tutto il giorno in riunione. Ho capito cosa voleva dirmi soltanto qualche giorno fa, il 12 luglio, quando l’ho rivisto, via web, alla conferenza stampa convocata dalla National Science Foundation (Nsf, il principale ente finanziatore delle ricerche delle università americane) per annunciare al mondo una scoperta eclatante.
Francis racconta, col suo inconfondibile accento fiammingo che la lunga permanenza negli Stati Uniti non è riuscita a cancellare, che cosa è successo il 22 settembre 2017. Quel giorno i rivelatori di IceCube hanno registrato l’interazione di un neutrino 300TeV che ha dato origine a un muone, che ha lasciato una spettacolare traccia luminosa rivelata da centinaia di fotosensori. I dati erano molto chiari e la direzione di volo del neutrino puntava a una galassia lontana, conosciuta per essere molto attiva nell’emissione di radiazioni di varia lunghezza d’onda. Si trova a circa 4 miliardi di anni luce di distanza, nei pressi della costellazione di Orione: il grande arciere che riluce nel cielo boreale, memoria perenne del gigante cacciatore della mitologia greca ucciso per mano di Diana.
Il mito vuole che il dio Apollo, contrariato per l’attrazione che la sorella provava per il mortale così abile nella caccia, la spingesse con l’inganno a uccidere l’amato. Zeus, preso a compassione per le lacrime della figlia e i lamenti inconsolabili del fedele segugio Sirio, compagno di tante battute, accoglie entrambi fra le costellazioni più splendenti. E nel cielo, sopra le nostre teste, li possiamo osservare ancora oggi, a cacciare assieme e lanciare frecce nella direzione del Toro.
Ma in questo caso Orione ha lanciato verso di noi altre frecce, più sottili e penetranti di quelle con cui abbatteva cervi e cinghiali. I neutrini rivelati da IceCube vengono dalla galassia TXS 0506+056, una di quelle sigle complicate cui gli astronomi devono ricorrere per dare un nome alla miriade di galassie che occupa la volta celeste. Ma i fisici non amano le complicazioni e la galassia viene subito ribattezzata con un nome che contiene le tre consonanti di base ma è molto più semplice da ricordare: la Texas Source.
Gli scienziati che gestiscono la presa dati dell’esperimento lanciano un’allerta a tutti gli osservatori del mondo. «Scienziati del pianeta terra, guardate verso la Texas Source; lassù sta succedendo qualcosa». L’appello viene raccolto da decine di osservatori che puntano i loro strumenti nella direzione indicata e qui viene il bello. Nei giorni successivi altri due apparati, specializzati nella rivelazione di fotoni di alta energia, registrano raggi gamma provenienti, indubitabilmente, dalla stessa sorgente. Non ci sono più dubbi che la Texas Source stia dando spettacolo.
Si sapeva da tempo che TXS 0506+056 era un oggetto molto strano. Si tratta di una gigantesca galassia ellittica dominata da un enorme buco nero in rapida rotazione su sé stesso. Il mostro ha una massa gigantesca, valutabile in centinaia di milioni, se non miliardi di masse solari e divora una enorme quantità di gas, polvere e stelle che si sbriciolano mentre spiralizzano verso il centro.
Tutti questi detriti formano un disco di accrescimento caldissimo da cui fuoriescono due getti polari, perpendicolari al piano di rotazione del buco nero, che emettono particelle altamente energetiche, capaci di raggiungere lo spazio più profondo. È l’effetto dei forti campi magnetici e dei venti mostruosi che si creano nel disco. Quando uno di questi getti è diretto verso la Terra i nostri strumenti sono in grado di rivelare alcune di queste particelle. Nelle spaventose accelerazioni che si producono nella Texas Source, oltre ai neutrini vengono prodotti raggi gamma, fotoni di altissima energia che accendono gli strumenti di Fermi e Magic, i due osservatori più sensibili: uno si trova in orbita attorno alla Terra, l’altro ha piazzato i suoi due telescopi nell’isola di La Palma alle Canarie. Eccola, la luce di cui parlava Francis.
È proprio il segnale che tutti sognavano. Una coincidenza così spettacolare non può essere casuale. Se assieme ai fotoni sono emessi anche i neutrini, questa è la prova che il gigantesco marchingegno alimentato dal buco nero della Texas Source accelera protoni, proprio come un Lhc di dimensioni mostruose.
Ed ecco che si comincia a capire uno dei misteri più grandi della fisica moderna. Dal 1912 i fisici si interrogano sull’origine dei raggi cosmici, questa pioggia di particelle cariche che investe il nostro pianeta da tutte le direzioni, incessantemente. Se ne sono registrate di energie cento milioni di volte superiori a quelle di Lhc e la loro origine è rimasta un mistero fino a qualche giorno fa. Ora le osservazioni di IceCube, Fermi e Magic ci dicono che a farci questo regalo sono galassie lontane, alimentate da giganteschi buchi neri.
Combinando l’osservazione di neutrini e di lampi gamma l’astronomia moderna ci permette di penetrare zone dell’universo fino ad ora rimaste completamente oscure e ciò che si osserva ci lascia, ancora una volta, senza fiato.