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 2018  luglio 22 Domenica calendario

Cosa succederà ora a Fca?

Ora per il britannico Mike Manley, figlio del Kent, terra di confine fin dall’etimologia, la sfida è quella di continuare a sviluppare Fca come un’azienda globale. Di tenere la nave salda nella tempesta dei sovranismi, dei nazionalismi, dei muri, dei dazi. In una parola sfidare tutti i venti che soffiano potenti nella direzione esattamente contraria a quella immaginata dal manager del maglioncino. Quella creata da Sergio Marchionne è un’azienda che prova, non senza qualche difficoltà, a costruire una cultura integrata tra Europa e America. Una scommessa sul futuro, pensata nell’epoca in cui si immaginava che la globalizzazione avrebbe avuto conseguenze anche socialmente positive. Ma mentre il processo faceva salire un miliardo di individui sopra la soglia della povertà, nell’Occidente ricco creava la rivolta dei ceti medi.
Un giovedì mattina del marzo 2016, al Salone di Ginevra. Gli scricchiolii del modello globalizzato cominciavano a farsi sentire, nell’economia e nella politica: «Quel che non abbiamo percepito in tempo – rifletteva Marchionne – è il contraccolpo che la globalizzazione avrebbe provocato nei nostri Paesi. Un errore che rischiamo di pagare caro». Ma ormai era troppo tardi per tornare indietro. E certo un manager come Marchionne, europeo e americano al tempo stesso non avrebbe certo potuto sposare la causa dei sovranismi.
Oggi Mike Manley è chiamato a difendere non solo l’azienda che eredita ma quella certa idea dell’economia, della società aperta, su cui è stata fondata Fca. L’idea di costruire un’azienda dove convivono produzioni iconiche ed economie di scala. L’Alfa Romeo e la Maserati prodotte in Italia, in certi casi equipaggiate con motori Ferrari e vendute in tutto il mondo come una parte importante del made in Italy. Il Grand Cherokee prodotto a Jefferson, lungo il grande corso che costeggia il fiume a Detroit, esportato come icona dell’America in tutti i mercati mondiali. Tutto si regge sulle economie di stabilimenti che producono molte auto e le distribuiscono in tutto il mondo.Che possono ammortizzare i costi di trasporto perché i margini sono molto alti. Così, con questa strategia, Sergio Merchionne aveva programmato di salvare il futuro degli stabilimenti e dei lavoratori italiani.
Sarà ancora così nella Fca di Mike Manley? Soprattutto il nuovo amministratore delegato potrà evitare che l’imminente guerra dei dazi colpisca in modo incrociato le vendite della Jeep in Europa e quelle dell’Alfa Romeo in America mettendo a rischio la sopravvivenza stessa del più globalizzato tra i costruttori di automobili? Il rischio è forte. Con qualche paradosso all’orizzonte: la Renegade, la prima Jeep pensata e costruita fuori dagli Stati Uniti, a Melfi, in Italia, dovrebbe pagare i dazi negli States. Non si è mai visto che un’auto con la calandra a sette feritoie debba versare una tassa per essere venduta Oltreatlantico. Non sappiamo se Sergio Marchionne, grazie al suo rapporto con Washington e alla popolarità di cui gode in America, avrebbe saputo davvero mettere al riparo Fca da queste tempeste.
Certo per il britannico Manley, a suo modo equidistante, non solo geograficamente, dalle due sponde dell’oceano, il compito non sarà agevole. Ma la partita è decisiva per garantire la sopravvivenza di Fca. Che cosa potrebbe accadere se dovesse invece prevalere la furia iconoclasta delle società che si chiudono, nell’illusione di difendere i propri popoli?
Nell’economia dei muri la tentazione è quella di cedere alla furia dei venti. Una scelta che gli Agnelli hanno pervicacemente evitato di percorrere. John Elkann e Mike Manley sono chiamati a ribadire quella decisione. Perché l’alternativa, se prevarranno i venti sovranisti, sarà quella di smontare ciò che Elkann e Marchionne hanno faticosamente costruito in questi anni. Lasciando che le attività americane, a partire dalla Jeep per proseguire con Ram, Chrysler e gli altri marchi, vengano fuse con uno degli altri due costruttori d’Oltreatlantico, Gm o Ford. E immaginando di unire Alfa e Maserati con un costruttore europeo, forse tedesco. Oppure di lasciarle autonome in un’unica società del lusso. In una parola è lo spezzatino, lo spettro che si agita nel futuro Fca se non si riuscirà a resistere al vento dei protezionismi.
Da ieri nella stanza dei bottoni più importante del gruppo, il britannico Manley è chiamato a combattere questa battaglia. A sua disposizione ha l’eredità industriale consegnatagli da Marchionne.
Innanzitutto una società senza debiti, più facile da sposare con altri costruttori nel caso in cui si voglia continuare a inseguire il sogno del grande accordo già accarezzato dal manager italo-canadese. Poi una società integrata, non una semplice somma di brand. Infine un gruppo che, volendo, America ed Europa possono considerare proprio, non totalmente straniero.Il ciclo di Sergio Marchionne alla guida di Fca è durato 14 anni. Molti elementi fanno ritenere che nel 2032 lo stesso mondo dell’auto sarà molto diverso da quello di oggi. Sarà un’auto a propulsione elettrica, che si muove da sé, condivisa. In quel mondo ci sarà ancora spazio per Fca, per i suoi 250 mila dipendenti, per le sue fabbriche italiane? Vista dalla sponda europea dell’Atlantico questa è la scommessa che deve vincere Mike Manley.