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 2018  luglio 22 Domenica calendario

Un “Flauto magico” ribelle e corale

È l’avvenimento teatrale dell’estate, e non solo italiana, il Flauto magico ribelle dello Sferisterio di Macerata. Scelto da Graham Vick per raccontare la rabbia, la solitudine dell’ultimo Mozart; il suo essere al di fuori di ogni convenzione. Con un disperato desiderio di parlare a tutti, di essere popolare e anche beffardo, infantile, carnale e scurrile. Ma sublime. Le continue invenzioni, in corsa, del regista e mago fantasista, nell’enorme e ostico spazio dell’Arena all’aperto, avrebbero potuto confezionare almeno una ventina di Zauberflöten diversi. Lui invece ne assembla uno solo, dove si arriva in fondo un po’ stremati, con qualche dubbio, un no, e un enorme senso del teatro. Vivo.
Diciamo subito che per il regista inglese il palcoscenico non è mai un luogo di favolette o di rassicurazioni. Tanto più se l’opera si presenta – apparentemente – come una Zauberoper, ossia categoria dell’irreale. Già dall’attacco Vick ci rimette coi piedi a terra: il famoso serpente (ah, quanta simbologia) che aggredisce il principe Tamino a inizio partitura (dove lui, ancor più simbologicamente sviene) diventa una ruspa. Si, una bella ruspa, gialla, presa dalla strada. In un teatro normale non ci sarebbe mai stata, e qui grazie ai novanta metri orizzontali di palcoscenico ci sta alla perfezione. Dietro di lei svettano tre totem, simboli del potere contemporaneo: la torre di Francoforte con la luce dell’euro, un cubo col simbolo della Apple, la Basilica di San Pietro con una scintillante croce. 
Sono le tre porte della Zauberflöte, in esplicita rivisitazione. Tamino vi batte per entrare, ma verrà ricacciato. Non sono porte neutre, perché all’interno, nella essenziale scenografia di Stuart Nunn, nascondono rispettivamente un arsenale di missili, con tanto di timer che conta minaccioso alla rovescia, e una enorme statua della Madonna della chiesa, con la bocca vistosamente bendata da un fazzoletto arancione. La ruspa inghiotte Tamino, lo salvano le tre Dame, che fuoriescono in tuta dalla buca della strada. Da qui usciranno buona parte delle magie dello spettacolo, salvo Papagena: eh, troppo facile. Vick non ci casca... E la fa spuntare da un bidone della spazzatura, che è ben presente a decoro dei lati della scena, a far da palizzata a due accampamenti di profughi, o rom, o chissà, comunque brulicanti come formicai, con tanto di auto parcheggiate e in continuazione riparate e lustrate.
È da questo doppio formicaio che escono in palcoscenico, a ondate perfettamente calcolate e disegnate con superba maestria di teatro, le famose cento comparse di Macerata. Magnifiche, con incredibili varietà di parlato. Famose perché Vick ne ha subito raccontato come l’elemento centrale di questa nuova regia, che segnava il suo debutto allo Sferisterio e che portava qui per la prima volta il concetto di opera partecipata, nato dal teatro per i bambini, oggi nuovo filone sperimentale, col pubblico nel contempo spettatore e attore. Non a caso nel secondo atto di questoFlauto gli astanti venivano invitati ad alzarsi in piedi e a cantare due brevi frasi col coro dei sacerdoti, all’iniziazione. E le migliaia dello Sferisterio si alzavano, cantavano. A dimostrazione del sottile margine tra libertà e dittatura. Dove basti un Sarastro qualsiasi col microfono in mano perché la massa segua, senza ribelli (o quasi).
Perciò inquieta il pensiero interpretativo di Vick. La sua non è una favola allegra. E infatti non si ride quasi durante le tre ore di spettacolo. Nemmeno quando Papageno entra tra le sedie in platea vestito da pollo, giallo, perché non è più «l’uccellatore», ma un comune «deliver», che fa consegne di cibo a domicilio. E non c’è magia, nel senso comune di abbaglio, con una Regina della notte in impermeabile beige, come un’impiegata della City. Ci sono però almeno un paio di colpi di tecnica scenica, memorabili: gli enormi occhi di Pamina, costruiti a vista dalle comparse, e naturalmente il finale, che non si dovrebbe svelare, per salvare la sorpresa degli spettatori a venire e dunque saltino la parentesi (crollano le tre torri, fragorose).
Qual è il dubbio: il Flauto in italiano, perché la traduzione metrica di Fedele d’Amico è più arcaica del tedesco. Qual è il no: Pamina. La sua Aria del secondo atto è di morte, non di seduzione. E non ci dica Graham che sono la stessa cosa... Qual è il limite: l’audio, soprattutto l’orchestra, corretta, anzi molto più corretta del solito la Regionale delle Marche sotto la direzione del giovane Daniel Cohen. Ma esile, in una partitura che vuole essere sinfonica, e diventerà modello del teatro tedesco. La compagnia è intenzionalmente di voci tutte italiane, con nessuna stella, di attori più che cantanti, come forse fu ai tempi di Schikaneder. Tanti applausi, tanti buuh. E un infinito interminabile discutere, dopo, tra le strade di cotto di Macerata.