Corriere della Sera, 22 luglio 2018
Sondaggi, il decreto dignità piace
Il decreto Dignità sta incontrando un largo consenso nell’opinione pubblica: tre italiani su quattro esprimono un giudizio positivo sulla stretta alle imprese che delocalizzano dopo aver ricevuto agevolazioni dallo Stato (75%), nonché sull’introduzione di limiti alla pubblicità per le aziende del gioco d’azzardo (74%), e una quota analoga (71%) concorda con l’aumento degli indennizzi ai lavoratori nei casi di licenziamento senza giusta causa e la restituzione proporzionale di eventuali aiuti statali per chi licenzia (71%). Il 54% apprezza le agevolazioni fiscali per i liberi professionisti e il 51% la restrizione sull’uso dei contratti a termine. Alcuni provvedimenti incontrano il consenso anche di una larga parte degli elettori dei partiti dell’opposizione, da Forza Italia al Pd.
Al centro del decreto c’è il lavoro e il vicepremier Di Maio ha dichiarato che si tratta di un primo passo per smantellare le norme del Jobs act che hanno favorito la precarietà. L’ex premier Renzi ha invece sottolineato come secondo l’Istat la disoccupazione stia continuando a scendere e sia ora ai minimi da 6 anni, grazie al Jobs act. A questo proposito il 43% degli italiani ritiene che la riforma del lavoro promossa dal governo Renzi non vada smantellata ma corretta, il 30% al contrario vorrebbe che fosse completamente smantellata e solamente il 4% è del parere che vada mantenuta così com’è, mentre il 23% non si esprime. Anche tra gli elettori del Pd prevale l’idea del parziale cambiamento del Jobs act (73%), mentre il 17% lo manterrebbe inalterato.
Gli italiani promuovono il provvedimento e il consenso va ricondotto a diverse ragioni, a partire dal nome scelto, decreto Dignità, evocativo della difficile situazione vissuta da alcune categorie di lavoratori.
Il lavoro, infatti, si colloca al primo posto tra le priorità degli italiani fin da quando – prima con il «pacchetto Treu» (1997) e poi con la legge Biagi (2003) – furono introdotte nuove tipologie di contratto (a progetto, in somministrazione, intermittente, ripartito, ecc.), facendo emergere lo spettro della precarietà e della difficoltà per i giovani di avviare percorsi di vita autonoma. È quindi comprensibile che il decreto susciti aspettative elevate, dato che la disoccupazione giovanile, nonostante la significativa riduzione registrata nelle più recenti rilevazioni (è ai livelli più bassi dal 2012), in Italia si colloca su valori quasi doppi rispetto alla media europea. Le aspettative elevate rappresentano una grande opportunità di consenso per i governi nella fase di avvio del mandato, ma possono rivelarsi assai perniciose perché, indipendentemente dalla realtà oggettiva, i risultati rischiano di essere inferiori alle attese.
Le critiche sollevate al decreto da sigle delle imprese e del sindacato hanno acuito la contrapposizione tra élite e popolo, rafforzando l’immagine di un governo che sta dalla parte dei cittadini. In questo contesto si inserisce il duro scontro tra il governo e il presidente dell’Inps Tito Boeri che nella relazione tecnica sul decreto ha evidenziato come le nuove norme potrebbero causare una diminuzione di circa 8.000 posti di lavoro all’anno. Il governo ha definito la relazione «priva di basi scientifiche e discutibile». Accuse che hanno fatto breccia, dato che il 48% degli italiani ritiene che i numeri dell’Inps siano contestabili, forse influenzati da opinioni politiche, mentre il 26% è convinto che l’Inps si sia limitata a fornire stime realistiche. La maggioranza dei cittadini, senza strumenti per giudicare i numeri, di fronte a stime contrastanti prende posizione in base alle proprie percezioni e all’appartenenza politica. Il clima da stadio che accomuna una parte non trascurabile di governanti e governati induce pericolosi processi di delegittimazione di istituzioni e «terze parti». Meccanismo rischioso che può travolgere chi lo mette in atto quando il vento dell’opinione pubblica cambia.