Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  luglio 21 Sabato calendario

Massimo Osanna: «A Pompei un senso di estraneità ma anche di forte vicinanza. Qui il tempo fa un cortocircuito»

La competizione elettorale doveva essere frenetica, negli ultimi mesi di Pompei. Lo attestano le iscrizioni riaffiorate in queste settimane dallo strato di cenere e lapilli che sommergeva il vicolo delle Nozze d’argento: tutte del 79 d.C., in molti casi sovrapposte ad altre che erano sovrapposte ad altre ancora, un po’ come avveniva da noi fino a qualche anno fa, quando la propaganda politica era affidata principalmente ai manifesti sui muri.

«Ecco qui: Elvium sabinum aedilem d.r.p, ossia dignum rei publicae. E poi v. b., virum bonum: è una persona a posto, degno della repubblica, votatelo. Qui invece c’è un Lucium Albucium, anche lui aedilem: di questo Albucius ci sono iscrizioni ovunque, doveva essere un personaggio…». Massimo Osanna mostra le foto sullo smartphone, nel suo ufficio affacciato sugli scavi più famosi del mondo. 55 anni, originario di Venosa, la patria di Orazio e di Gesualdo, è dal 2014 direttore generale del Parco archeologico di Pompei.
Mica male il panorama...
«Beh, io sono archeologo di formazione. Ho sempre lavorato molto sul campo, il rapporto con la materia archeologica è quasi viscerale. Infatti spesso scappo da questo ufficio e vado negli scavi».
Come le è nata la passione?
«È stata molto precoce. A Venosa, già ai tempi delle scuole elementari, con alcuni compagni andavo a cercare nell’area archeologica, che allora era aperta, in pieno abbandono, e ricordo l’emozione di fronte all’emergere dell’antico».
Qual è l’eccezionalità di Pompei?
«Al di là del fatto che è il luogo dove l’archeologia è nata, almeno quella occidentale, per me Pompei è uno dei pochissimi luoghi al mondo in cui il tempo si scardina. Sepolta e quasi dimenticata per 1700 anni, poi riemersa all’improvviso: è come se il tempo facesse un cortocircuito, e questo da un lato ti dà un senso di estraneità, ma dall’altro anche un forte senso di prossimità. Proprio per questo è un luogo di ispirazione straordinaria: ogni generazione lo ha letto in una maniera diversa, dagli artisti del ’700 agli architetti dell’800 che hanno rifatto palazzi alla pompeiana in tutta Europa, come quello di Sissi a Corfù o quello di Ludwig a Aschaffenburg. E adesso al Madre di Napoli c’è una mostra con le opere di artisti contemporanei che si sono ispirati a Pompei».
Al suo arrivo la situazione non era facile.
«Più di metà dell’area archeologica era chiusa al pubblico perché non in sicurezza. C’era il problema dei crolli continui, causati dalla lunga assenza di manutenzione programmata. I depositi erano in buona parte fatiscenti, non esisteva un archivio informatizzato. Un pacchetto di soluzioni era stato inserito all’interno del Grande Progetto Pompei, che sulla carta era partito nel 2012, ma nel 2014 non era ancora decollato: dei 105 milioni messi a disposizione dall’Europa, erano stati spesi solo 400 mila euro. Poi mancava un personale qualificato, e quello disponibile era numericamente inadeguato e spesso sottoutilizzato».
Come è intervenuto?
«Il mio obiettivo prioritario era la messa in sicurezza sistematica e totale dell’area scavata. Questo lavoro è quasi ultimato, e adesso ci stiamo dedicando alla riconfigurazione dei fronti di scavo nella Regio V, quella da cui stanno venendo fuori tutte le scoperte meravigliose di quest’anno. Poi abbiamo riaperto l’Antiquarium, dove esponiamo a rotazione i manufatti ritrovati nel ’900. Infine ho potuto assumere nuovi professionisti specializzati in diverse discipline, e affidato la responsabilità di ognuna delle nove regiones di Pompei a una coppia formata da archeologo e architetto. Ma bisogna ancora lavorare molto sull’aspetto della fruizione, dell’adeguamento ai flussi di pubblico sempre più numerosi: l’anno scorso abbiano chiuso con 3,5 milioni (80% stranieri) e quest’anno stiamo aumentando ulteriormente».
C’è un limite fisiologico alla crescita?
«Dipende d
alla possibilità di accoglienza e di distribuzione all’interno del sito. Quando alla fine dell’anno prossimo tutta la parte scavata sarà visitabile, potremo anche arrivare a 5 milioni. Già adesso stiamo facendo una rotazione delle 
domus
aperte - una trentina, le più rilevanti - in modo da coprire ogni area e invitare i visitatori a distribuirsi, perché se si concentrano tutti tra la via dell’Abbondanza, il Lupanare, i Teatri e il Foro, la situazione diventa ingestibile. Non le apriamo tutte contemporaneamente, perché le case devono respirare, non possono subire in continuazione una pressione antropica. E in questo modo possiamo fare la manutenzione su quelle chiuse
».
Ma la manutenzione basta a rimediare all’impatto dei visitatori?
«È chiaro che un po’ di materia si perde. Ma questo posto è un patrimonio dell’umanità: lo teniamo chiuso? Non si può, bisogna lavorare in modo da limitare i danni al minimo. Noi abbiamo un obbligo, che è quello di consegnare questo luogo alle generazioni future».

L’area di Pompei tornata alla luce è di 44 ettari sui 66 complessivi della città antica di 30 mila abitanti. Perché non si scava la parte restante?
«Per il solo fatto di avere deciso di lavorare su una piccola area, non più di un ettaro, a fini di tutela, mi sono piovute le critiche dei benpensanti che dicono “non si deve più scavare a Pompei perché c’è già tanto da manutenere”. Il problema è che devi scavare se vuoi manutenere. La mia idea è di mettere prima di tutto in sicurezza, dopo si potrà scavare. Certo non in maniera vorticosa come facevano nel secolo scorso Maiuri o Spinazzone, con centinaia di operai. Ma in maniera lenta e progressiva si può fare. Io, se resterò a Pompei, continuerò gli scavi».
Quando si può ipotizzare che tutto sarà tornato alla luce?
«Non nella nostra generazione. Noi siamo al lavoro sistematicamente da un anno, avremo scavato mezzo ettaro. Bisogna bilanciare i soldi che dedichi alle ricerche e quelli che dedichi alla manutenzione».