Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  luglio 21 Sabato calendario

Gilliam: «Come don Chisciotte viviamo tutti in una realtà distorta e lottiamo per capirla»

Michela Tamburrino
Il primo western della storia cinematografica di Terry Gilliam ha il volto folle di un visionario che affronta battaglie e sofferenze pur di agguantare la sua poesia. Non è un caso se il regista de La leggenda del re pescatore e L’esercito delle 12 scimmie ha impiegato ventinove anni per girare L’uomo che uccise don Chisciotte, presentato in chiusura del Festival di Cannes e ora in uscita nelle sale, in autunno, distribuito da M2 Pictures. Per presentarlo in anteprima italiana Gilliam ha scelto lo scenario suggestivo dell’Ischia Film & Music Global Festival, megaschermo sull’acqua nella baia del Regina Isabella di Lacco Ameno, un sogno nel sogno tra mare, stelle e mulini a vento da sconfiggere.
Gilliam come si sente dopo tante vicissitudini?
«Gli esseri umani ci mettono nove mesi per creare una vita. Il cinema è sempre stato più complicato della vita stessa. Ventinove anni per un viaggio nel tempo che mi ha lasciato tanto».
Tanto in termini di sofferenza?
«Non solo. La mia teoria è che in un certo modo il film si sia fatto da solo stratificandosi, procedendo per addizione e sottrazione perché è il risultato di tutto questo tempo, di tutta questa fatica, di un cast cambiato mille volte. Se non fosse stato così il film non esisterebbe per come lo vediamo. Sarò stupido ma è stata la mia grande determinazione a portarmi qui. A questo punto posso dire che la pellicola è Don Chisciotte e io sono Sancho Panza, il fedele scudiero».
Che significato ha oggi la storia scritta da Cervantes e ambientata nel XVII secolo?
«Posso dire quello che significa per me. Il mio eroe era un sognatore puro che da universitario aveva girato un piccolo film coinvolgendo e sconvolgendo tutto un paese. Ma non solo del paese, anche quella di Dulcinea che da ragazzina ingenua crede di poter diventare una star e invece si trasformerà in una escort per uomini violenti (solo l’amore potrà salvarla). Dieci anni dopo però torna cambiato, si è venduto l’anima, è sceso a compromessi tradendo se stesso e fa spot pubblicitari. Io non amo i blockbuster, sono ripetitivi e non raccontano persone reali. Qui ho cercato di raccontare un mondo vero con tutti i suoi limiti, un mondo nel quale irrompe l’immaginazione. Volevo mettere il cinema nel film, lo spettacolo».
Un cinema d’autore con i criteri del cinema di cassetta?
«Il cinema d’autore è concepito per piccoli budget: tre persone in una stanza che discutono. Oppure ci sono i grandi prodotti da centinaia di milioni. Vie di mezzo non esistono. Io cercavo qualcosa di unico. Ci ho messo dentro 16 milioni di euro ma sembrano molti di più. Ho creato una categoria di mezzo che farà scuola».
Lei che cinema ama?
«Non vado al cinema, da più di due anni per merito di questo progetto ho vissuto in stato d’isolamento».
Condizione ideale per sognare.
«Non ho più alcun sogno, li ho esauriti. E anche la mia immaginazione l’ho tutta consacrata a Don Chisciotte. Perciò non ho neppure progetti futuri. La mia condizione è come quella di Don, andrò di festival in festival a parlare solo del film e questo sancirà la mia pazzia totale».
Lei ha messo su un cast di tutto rispetto con Adam Driver, Jonathan Pryce, Stellan Skarsgard, Olga Kurylenko e Joana Ribeiro, ben diverso da quello del Duemila più d’effetto che vedeva protagonista Johnny Depp.
«E questo è il cast migliore che potessi avere. Quando pensai a Depp, avevo immaginato che iniziasse in tempi moderni e che poi per una botta in testa lui si ritrovasse nel XVII secolo. Banale e stupido. Qui l’idea vincente è del cineasta che aveva fatto un gioiellino e che si ritrova corrotto dopo aver distrutto la vita di tutto il paese chiamato a collaborare a quel piccolo film. Voglio dire che un tempo era la letteratura a corromperci, oggi è il cinema».
Più bravo o più fortunato di Orson Welles che tentò tutta la vita di realizzare un suo Don Chisciotte senza riuscirci?
«Conosco il suo lavoro, penso che il problema di Welles, come il mio, fosse quello di riuscire a portare una storia così antica a un pubblico di oggi. Nel mio film ho messo una citazione che riporta a lui. Doveva essere una moto ma non avendo i soldi ci ho messo una bici».
Chi è Don Chisciotte?
«Molti pensano che sia il solo protagonista della storia ma non è così. In noi coesistono Don e Sancho, la visione distorta della realtà e lo strumento per capirla. Don era un pazzo ma Sancho comincia a credergli quando guarda la vita attraverso gli occhi di questo ciabattino che ha la faccia di un venditore di assicurazioni dagli occhi onesti che si crede un eroe».
C’è di mezzo anche8 e mezzodi Fellini?
«Un riferimento consapevole a Fellini non c’è ma lui ha influenzato il mio stile e l’idea che io ho sul vero significato dell’essere regista».
Il film è al centro di una diatriba giudiziaria, una sentenza del tribunale di Parigi le toglie i diritti della pellicola. Come stanno oggi le cose?
«Sono fuori da queste beghe».