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 2018  luglio 21 Sabato calendario

Jacopucci, la tragedia che cambiò la boxe

Ho perso con Minter perché mi sono distratto». Angelo Jacopucci forse darebbe oggi, ormai settantenne, la stessa versione di una notte romagnola di 40 anni fa. Il Clay dei poveri, come lo chiamavano, era appena sceso dal ring dopo aver perso per ko il titolo europeo contro un inglese di nome Alan, occhi di ghiaccio e pugni di ferro, che la gente aveva conosciuto alle Olimpiadi di Monaco. Jacopucci sorrideva, scambiava battute con il pubblico, faceva come The Greatest. Si giustificava per non essersi ripreso il titolo che era stato suo, meditava la rivincita: «Parlerò con Rocco Agostino (lo storico manager, ndr), appena passa la buriana vedremo il da farsi». Non ci sarebbe stato futuro. Jacopucci si sentì male dopo il banchetto che seguì l’incontro.Danni cerebrali irreversibili: la sua vita si spense tre giorni dopo a 29 anni. Una tragedia che cambiò la boxe: crebbe l’attenzione per la salute dei pugili, i titoli europei passarono da 15 a 12 round.Non poteva che essere popolare uno che saliva sul ring con quella faccia da cinema alla Giuliano Gemma e che amava essere guascone. Lo era nei match, lo era stato nell’adolescenza piena si scazzottate nella sua Tarquinia, dove oggi c’è una palestra che ne porta il nome. Il ring di Bellaria era circondato da tanti tifosi che univano i piaceri del mare romagnolo alla passione per la boxe. In palio c’era un Europeo che Jacopucci aveva conquistato contro un altro inglese, Bunny Sterling, prima di cederlo in un derby italiano al ragioniere del ring Germano Valsecchi. Andrea, il figlio di Angelo, quella sera aveva tre anni: «Non mi portarono a Bellaria, ero a casa con mia nonna». Oggi, 43enne, lavora nel campo dell’edilizia («Mi do da fare, ho un figlio di nove anni») e dal padre ha ereditato la passione per la boxe. «Crescendo ho scoperto che personaggio fosse. Da ragazzo mi sentivo molto il figlio del campione, se c’era da fare a pugni non mi tiravo indietro. Sono cresciuto con i film di Rocky, volevo fare il pugile, a 14 anni ho dovuto dare un taglio netto alla palestra perché mia madre, e c’è da capirla, non vedeva di buon occhio la cosa...».Amore per la boxe, nessun rancore verso l’inglese: «Ho rivisto un paio di volte l’incontro.Equilibrato. Poi la potenza dei colpi di Minter ebbe il sopravvento. Ma non ho mai provato per lui sentimenti negativi. Non l’ho mai incontrato, forse lui non se l’è sentita, so per certo che è stato a Tarquinia e si è recato sulla tomba di mio padre».Che Andrea definisce altruista e generoso: «Gli piaceva essere al centro dell’attenzione, dava tutto per il pubblico. La boxe italiana oggi ha pochi talenti, un uomo come lui la rilancerebbe. Divideva la critica. Una parte lo accusava di essere poco lottatore e questo gli dava molto fastidio».Divideva anche il pubblico. «Su mille persone che lo andavano a vedere, 500 tifavano per lui, le altre speravano di vederlo perdere», ricorda Mario Romersi, sconfitto da Jacopucci per un titolo italiano. «Aveva atteggiamenti del tipo: “ti metto giù al terzo round”. A me disse: “non sei nessuno, ti batto quando voglio”. Ma era un copione, era simpatico, grandissima tecnica, però incassava poco».A Bellaria Jacopucci, che aveva cambiato manager, cambiò anche tattica. Rischiò, si avventurò su un terreno minato. Colpì duro ma fu colpito ancora più duro, fino alla fatale ripresa numero 12. L’inglese dopo aver discusso con la propria coscienza, proseguì la carriera conquistando nel 1980 il titolo mondiale. Lo perse sei mesi dopo alla Wembley Arena, sfregiato dai colpi taglienti di Marvin Hagler.Dagli spalti, quelli del National Front, l’estrema destra inglese, lanciarono bottiglie sul ring, accecati dall’odio razziale.Jacopucci, iscritto al Pci come il padre ferroviere, sarebbe stato contento di quel verdetto per motivi politici, non per la sconfitta di Minter. Perché, ribadisce il figlio Andrea: «Nessun rancore, la boxe è anche questo».