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 2018  luglio 21 Sabato calendario

Madeleine Peyroux: «Vorrei essere come Picasso quando dipinse Guernica»

Cantare e scomparire sono le cose che sa fare meglio. Ventidue anni fa, sull’onda del lusinghiero debutto con Dreamland — una nuova Billie Holiday, scrissero tutti — Madeleine Peyroux si rese irreperibile (anche ai suoi discografici) per otto anni. Lo fece di nuovo nel 2005, dopo le registrazioni di Half the perfect world, il suo capolavoro con la più bella cover di Leonard Cohen, Blue alert, uscita dopo Suzanne di Nina Simone e Hallelujah di kd lang. «È importante per me cambiare come e quando voglio, magari anche di scomparire come ho già fatto. Sono libera, dovrei essere felice non fosse per la situazione vergognosa che l’America sta vivendo. Il mondo per fortuna è grande, qui a Parigi sto bene, la gente è più colta e consapevole, filosoficamente e ideologicamente più attrezzata.

E Macron non mi dispiace», dice la cantante di Athens, Georgia (la città di B-52’s e R.E.M.), 44 anni, che il 31 agosto pubblica il nuovo album Anthem — affresco malinconico e grandioso della nuova Grande Depressione. Si esprime con la malinconia di Billie Holiday e l’indolenza della Jeanne Moreau nei dischi incisi in piena nouvelle vague, ma non è mai stata un’imitatrice, tanto meno in questo nono album, dove i brani originali sono più numerosi e rilevanti delle cover.
Dei sui idoli parla volentieri e generosamente. «Leonard Cohen? Nessun altro è capace di esprimere in una sola canzone carnalità, desiderio, religiosità, nostalgia, sensualità, abbandono, pudore. Billie Holiday? Ogni cosa che ha fatto è facile, semplice, come se cantare non le costasse nessuno sforzo.
Perfetta anche emotivamente», dice mentre sorseggia una pinta di birra nel bar di Montmartre che è il suo rifugio nei mesi in cui soggiorna a Parigi. La madre si stabilì in Francia trent’anni fa, in fuga da un matrimonio complicato. «Mio padre era un uomo autoritario, un alcolista che lavorava a singhiozzo. Io per sopravvivere ho scelto le due cose che non lui poteva controllare, la musica e il canto.
Avevo un ukulele da bambina, quando lo suonavo era l’unico momento in cui lui se ne stava tranquillo in un angolo — la mia cura per la bestia feroce. Quando se ne andò fu meglio per tutti», confessa la cantante.
«Ci ho messo due anni a scrivere le nuove canzoni», racconta Peyroux, «ho iniziato mentre ero in tour negli Usa durante le primarie, da quel momento in poi gli spunti non sono mancati.
Ho pensato continuamente ai cantautori che amo: Dylan, Cohen, Joni Mitchell, ma anche Ray Charles e i primi bluesmen, gente che ha avuto la genialità di esprimere poeticamente opinioni senza fare manifesti politici».
Ray Charles fece un gesto rivoluzionario quando nei primi anni Sessanta incise due dischi di canzoni country usando un fraseggio tipicamente afroamericano.
«E ne era perfettamente consapevole. Era il 1962, infuriavano le lotte per i diritti civili, Modern Sounds in Country & Western Music fu un gesto politico, eccome se lo fu».
Sembra che lo sconcerto per il trionfo di Trump sia il motore di questo album. Che lei abbia voglia di dire la sua invece di affidarsi alle riletture di Waits o Mitchell o Serge Gainsbourg.
«È stata un’esperienza devastante come l’11 settembre. Ci siamo sentiti perduti, improvvisamente catapultati dentro una nuova realtà, uno shock. Non ho mai compreso fino in fondo la campagna denigratoria che ha affondato Hillary Clinton, un odio ingiustificato. Ho passato mesi a ripetermi, non ci credo, non posso crederci, è impossibile. Ha vinto l’arroganza».
Cosa ricorda del giorno in cui Trump fu eletto?
«Ero a New York, mi ero addormentata piangendo perché dalla conta dei grandi elettori il risultato era ormai prevedibile. La mattina trovai un messaggio di mia madre che chiamava da Parigi, diceva semplicemente: questo è uno di quei momenti in cui non saprei che fare se vivessi in America e avessi dei bambini. Ero ancora a letto, mi feci la pipì addosso. Letteralmente. Non è bello da raccontare ma è quel che accadde. Chiunque come me è cresciuto a New York sa bene chi era il nostro presidente: un uomo disgustoso privo di umanità, un paperone da tabloid, un immobiliarista spregiudicato».
“Lullaby” è una ballata che tocca il problema dei rifugiati, tema attuale anche in Italia.
«Quello dei rifugiati è un problema che riguarda tutta l’umanità, se ne dovrebbero far carico Banca Mondiale, Europa e America insieme, nessuno escluso. Invece l’Europa è ancora troppo divisa per far fronte all’emergenza e gli Usa in piena globalizzazione innalzano muri e impongono dazi.
Lullaby mette in primo piano le qualità che ogni leader dovrebbe avere: pietà e compassione. Il problema dei rifugiati diventerà critico se il mondo occidentale non lo affronterà di concerto».
Questa volta ha voluto intitolare l’album con una canzone di Cohen: “Anthem” (Inno). Ha un significato preciso?
«Nel clima di depressione e malessere in cui stavo vivendo dopo la vittoria di Trump un’amica mi consigliò di ascoltare Anthem; è una ventata di ottimismo, mi disse. Lo feci ed è servito, anzi è diventata un’ossessione oltre che una panacea, quelle parole — “ c’è una crepa in ogni cosa / è da lì che filtra la luce” — sono diventate il mio mantra».
Anche “Liberté” sembra riflettere lo spirito dei tempi e l’incubo del terrorismo.
«Certamente cantando Eluard non posso non pensare al Bataclan.
Liberté è un inno liberatorio in un momento in cui ho mille paure. La più grande? La nuova ondata di fascismo che serpeggia nel mondo».
Cosa può fare un artista?
«Essere coraggioso. Come Picasso quando dipinse Guernica».