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 2018  luglio 21 Sabato calendario

Dal falso al lusso, la leggenda di Dap


È stata colpa di Mike Tyson. Lui, in realtà, quel 23 agosto 1988 voleva solo fare due chiacchiere coi sarti di Dapper Dan ad Harlem che gli stavano cucendo un completo da 800 dollari: non voleva creare problemi, ma è così che è andata. Erano le quattro e mezzo del mattino (la boutique sulla 125sima di Harlem funzionava 24 ore su 24, sette giorni su sette), ma un suo vecchio rivale, Mitch Green, aveva scelto proprio quel momento per regolare i conti con lui.La notizia della rissa finì sui media di tutto il mondo ( per la cronaca, Green ebbe ancora una volta la peggio), portando così alla ribalta anche Dapper Dan, passato nel giro di poche ore da culto del quartiere a nome sulla bocca di tutti. Con la fama arrivò però anche l’attenzione dei marchi europei, allertati dall’episodio e da alcune mise sospette viste addosso al pugile e ai rapper più in voga in quegli anni, da LL Cool J alle Salt n’Pepa, che sfoggiavano regolarmente abiti ricoperti dai loro loghi: peccato che non fossero originali. Erano opera del designer, che vestiva pure la malavita locale. Fu così che iniziarono le cause con gli avvocati e le ispezioni a sorpresa, fino a una particolarmente severa di Fendi ( a guidarla Sonia Sotomayor, oggi giudice della Corte Suprema), che gli fece capire che non era più aria.Intanto il suo contributo alla moda Dapper Dan l’aveva lasciato, eccome. «Si rifiutavano di vendermi la loro merce: io ho solo fatto quello che andava fatto», dice oggi il designer, al secolo Daniel Day, Dap per gli amici, per spiegare quell’uso spregiudicato di firme e loghi. Quasi settant’anni, alto, magro e impeccabile, riassume così l’epopea del negozio con cui tra il 1982 e il ’92 ha trasformato lo stile afroamericano, liberandolo dal gusto ( bianco) dominante. Con lui l’ostentazione – se fatta bene – diventa un valore, lo sportswear si eleva a moda, e i loghi dilagano, ben oltre le borse e gli accessori. Tutte idee ora alla base del lusso contemporaneo: anche di chi lo aveva a suo tempo costretto a chiudere.Inizia così un lungo periodo dietro le quinte, fino all’episodio che lo riporta in scena, e che ha del paradossale. Perché stavolta il “saccheggiato” è lui. Merito di un bomber di Gucci dello scorso anno, chiara rielaborazione di un suo modello del 1989 ( l’originale, per così dire, era in tela pseudo- Vuitton). Un omaggio, secondo Alessandro Michele, alla pari di quelli a Botticelli e Pontormo. Appropriazione culturale, secondo i critici. Qui, il colpo di scena: invece di litigare, i due si alleano. Sotto l’egida di Gucci, Dap riapre il suo atelier (stavolta sul Malcom X Boulevard), e torna a essere il riferimento del Gotha della cultura nera: Jay Z e Beyoncé, Asap Ferg (il padre lavorava per Dap), il cestista dei New York Knicks Trey Burke che, a 25 anni, lo conosce dai racconti dello zio. Oltre al made- to-order, Gucci gli commissiona pure una collezione lanciata in questi giorni: la campagna la scattano a pochi passi da casa di Dap, mentre sua moglie osserva con le lacrime agli occhi.«Non importa perché tutto questo stia succedendo, conta che sia successo: è il messaggio a essere importante. Quello che stiamo facendo vale più di quello che c’è stato prima». Dap è un simbolo del quartiere, della comunità che lo prende a esempio. Lo si capisce guardando la gente fermare l’auto solo per stringergli la mano o avvicinarsi al suo tavolo da Sylvia’s, ristorante simbolo di Harlem, per una foto. Si capisce dal rispetto con cui parlano di lui allo Schomburg Center, istituto per la ricerca e la cultura afroamericana, dalla gioia con cui lo salutano da Minton’s, il locale dove sono nate le battaglie di jazz tra band antenate delle gare di freestyle tra rapper, dell’orgoglio con cui si parla del suo ritorno. E lui non manca di rimarcare quanto questi luoghi siano stati fondamentali quando parla della sua infanzia ai limiti della povertà, del viaggio in Africa finanziato dalla National Urban League che non solo lo ha salvato dalla delinquenza, ma gli ha pure permesso di imparare a unire moda e senso del decoro africano, della carriera da giocatore d’azzardo e degli esordi da designer, con il bagagliaio dell’auto a fare da negozio.Ne ha di cose da raccontare: a confermarlo, l’uscita nel 2019 della sua autobiografia e di un film sulla sua vita. «Usciranno in contemporanea, ma non ho idea di cosa tratterà il film. Ho vissuto così tante vite diverse». L’unica costante è Harlem, che qualche mese fa ha salutato la campagna del tailor-made di Gucci come un riconoscimento fondamentale della propria identità. «Siamo una comunità nella comunità: abbiamo sempre ragionato così. Certe cose non cambiano. Mi ricordo che nel ’ 68 ho partecipato a un documentario sulla gentrificazione del quartiere, poi tutti sono andati via, ma io sono rimasto perché la mia storia è qui. Bisogna sapere da dove si arriva e dove si va, e solo dopo dire la propria, lo ripeto sempre a mio nipote. La nostra voce oggi è ascoltata e riconosciuta: abbiamo il dovere di farci sentire e di parlare con responsabilità. Lo dico perché ci credo: è tutta la vita che cerco di farlo».