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 2018  luglio 21 Sabato calendario

Dalla guerra al ring, in Iraq la rinascita passa per il pugilato

«He’s a good shooter». Tutti dicono che Saadi tira molto bene, che mira, che colpi secchi, e anche il giornalista italiano va spesso a guardare quel peso massimo ragazzino, come evita le corde, come lavora ai fianchi, e in effetti, sì, è d’accordo anche lui, davvero bravo: bel pugile, buon colpitore. Nella palestra di Al-Sadr City, arriva l’ora dell’allenamento e Saadi è sempre lì che ci dà dentro. «Per un po’ l’ho osservato – racconta Riccardo Romani, reporter innamorato della boxe quanto delle storie che da una vita scova in giro per il mondo – e ho cercato d’immaginare che futuro potesse avere, un diciottenne iracheno che boxava in quel posto. Usava le pareti di cemento come sacco, i campi di calcio come ring e mi stupivo. Soprattutto, non avevo capito l’equivoco: se dicevano “shooter”, si riferivano ai suoi colpi da cecchino, non da pugile. Perché Saadi ogni fine settimana si levava i calzoncini, indossava la divisa e andava a Falluja. Smetteva di combattere sul ring, andava a combattere al fronte». Se ci vuole molta rabbia e molta disperazione, per conquistare il mondo a pugni, c’è forse un luogo più furibondo e senza futuro di questa periferia sciita di Bagdad, dove nel 2003 esultarono per primi alla cacciata di Saddam e ormai sono gli ultimi ad aspettarsi un po’ di pace? 650 autobombe in 15 anni, 13 mila civili ammazzati, 45 mila feriti. È da qui che parte la favola bella e tremenda della squadra irachena di boxe che due anni fa partecipò all’Olimpiade di Rio e che Romani ha girato in «Hands of God», Mani di Dio, un docufilm prodotto da due premi Oscar (Alfonso Cuarón di Harry Potter, Art Horan de «I soliti sospetti»...) e appena presentato al Taormina Filmfest. Due anni di riprese in sei Paesi. Sparatorie in prima linea e k.o. al primo round. Difendere la nazione e insieme la nazionale. Gli allenamenti a 40 km dall’Isis. Il fiato da rompere fra vetri frantumati e case sbrecciate. «Non è stato facile convincerli a raccontarsi – dice Romani – e poi seguirli nelle qualificazioni in Thailandia e in Cina, durante le sfide in Qatar e in Azerbaigian». Il giovane Jafaar, il soldato Wahid, il bacio alla bandiera, le lacrime di fatica, la paura della trincea, l’adorazione per l’eterno Muhammad Ali: «Il nostro sogno è sempre stato quello di diventare boxeur importanti. Certi giorni, per gli attentati, si saltano gli allenamenti. Ma non è grave: in Iraq ci sono priorità, scelte più importanti del nostro sogno». Al Dream Team della boxe non credevano neanche gli iracheni, e la qualificazione dei pugili-combattenti fu una sorpresa che commosse il mondo: era dai tempi di Salman Ismail, battuto a Los Angeles contro Evander Holyfield, che l’inno non suonava sui quadrati delle Olimpiadi. A Rio è toccato a Wahid sventolare il tricolore dell’Iraq, emozionato portabandiera alla cerimonia d’inaugurazione, ed è stato subito chiaro che non era la gara a contare. «Qui non c’è niente, esci di casa ad allenarti e non sai mai se la sera tornerai intero. Chi ammazza in nome dell’Islam è un perdente, in questa vita come in quella dopo la morte. Questo Paese sta morendo di bombe». L’unica è fasciarsi le mani, non la testa. Infilare i guantoni. E mettersi nelle mani di Dio.