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 2018  luglio 21 Sabato calendario

L’energia metafisica del genio Toscanini

Quando, il giorno di Capodanno del 1957, si sparse la notizia che Arturo Toscanini era stato colpito nella sua casa di New York da un’emorragia cerebrale, il mondo rimase quasi inebetito. Benchè il Maestro fosse ormai novantenne, e da un paio d’anni si fosse ritirato dalle scene, sembrava impossibile che tanta energia potesse d’un tratto fermarsi. Come per Churchill, si pensava che l’uomo si fosse dimenticato di morire. E invece la fine arrivò due settimane dopo. L’America, che gli aveva dato ospitalità, ricchezza e onori, avrebbe voluto tenerselo per sé. Ma Lui era metà americano e interamente italiano: così la sua salma tornò subito a Milano, che gli tributò delle esequie meste quanto trionfali. Solo per Giuseppe Verdi si erano visti tanti volte e tante lacrime.
Era nato a Parma, il 25 Marzo 1867, da un padre garibaldino, che gli trasmise una fede laica che avrebbe conservato fino alla fine. Fu un genio precoce: come Mozart, riusciva a suonare a trascrivere un motivo dopo averne ascoltato poche battute; studiò violoncello, ma a vent’anni sostituì nell’Aida un direttore d’orchestra temporaneamente impedito. Fu un trionfo,e da lì iniziò una carriera straordinaria per durata e intensità. Il suo repertorio, già esteso, si rinnovava di continuo: diresse la prima esecuzione dei Pagliacci e tre decenni dopo, della Turandot. Nel frattempo studiava i due mostri sacri teutonici, Wagner e Beethoven. 
Fu un fervente patriota. Nel 1915 si schierò per l’interventismo (gli artisti e gli uomini di cultura non sono necessariamente pacifisti a tutti i costi) e mobilitò gli strumenti musicali come efficaci armi da fuoco: durante la guerra si esibì solo in concerti per militari, diresse la banda sul Monte Santo appena conquistato, e fu decorato di medaglia d’argento al valor civile. Nel 1920 fece altrettanto a Fiume, appena occupata da D’Annunzio. Ma quando Mussolini mostrò il suo vero volto di dittatore ne ripudiò l’ideologia, e manifestò apertamente la sua ripugnanza verso il regime, rifiutandosi di eseguirne l’inno ufficiale. La sera del 14 Maggio 1931 al Comunale di Bologna un gruppo di giovani fascisti lo aggredì con calci e pugni; nauseato se ne andò in America. 
ISRAELE
Con l’avvento di Hitler in Germania rifiutò l’invito a Bayreuth, e dopo l’ Anschluss del 1938 anche a Salisburgo. Diresse invece in Israele con la nuova Filarmonica di Palestina, composta di ebrei fuggiti dai pogrom e dalle discriminazioni. Nel frattempo la sua fama, se possibile, cresceva ancora. Gli Stati Uniti gli offrirono la possibilità di farsi un’orchestra tutta sua. Così nacque la NBC Orchestra, di cui fortunatamente possediamo tante, ancorchè imperfette, registrazioni. Toscanini si trasferì definitivamente a New York con la famiglia, senza trascurare altre relazioni effervescenti. Era un galantuomo, ma non era un santo. 
Durante la seconda guerra mondiale diresse solo per le forze armate americane. Per il pubblico, esegui e modificò l’Inno dell Nazioni di Verdi: la composizione è un mélange della Marsigliese, del God save the King e di Fratelli d’Italia, con testi riadattati, integrati dall’inno americano e dall’Internazionale socialista: una concessione al temporaneo abbraccio tra Stalin e le democrazie occidentali in tempore belli.
Come tutti quelli di gran carattere, aveva un carattere orribile. Era arrogante e spietato anche con il gentil sesso. Quando il soprano Geraldine Farrar, interrotta da lui durante una prova, lo apostrofò piccata: «Maestro, si ricordi che io sono una stella», lui le rispose acido: «E Lei si ricordi che quando il sole splende le stelle non si vedono. Ma sapeva esser gentile con le giovani promesse. A Yehudi Menuhin, che gli chiese di correggerlo se suonava male, Toscanini rispose affettuosamente: «Non suoni mai male, Yehudi».
Fu il più grande direttore del secolo? Domanda oziosa, perché nell’estetica non esistono classifiche: non ebbe la maestosa eloquenza di Furtwangler, e il suo Beethoven, soprattutto nella settima e nella terza sinfonia, galoppa così veloce da impedirci di apprezzarne le sfumature. Questa rapidità di esecuzione è forse il suo difetto maggiore, anche se vari critici la attribuirono a un rigoroso rispetto del testo. La questione resta aperta perché, come sosteneva Massimo Mila, un’interpretazione oggettiva non esiste, e se Bach ritornasse in vita non riconoscerebbe alcuni suoi capolavori. Resta il fatto che, senza arrivare alle dilatazioni dei tempi di Celibidache, le esecuzioni della musica romantica di Klemperer e quelle più di recenti di Kleiber suscitano emozioni più calde di quelle evocate dal rigido e asciutto Toscanini. 
CELEBRATO
Fu il più celebrato? Si, se si guarda al suo tempo. La sua avventura americana, unitamente alla sua straordinaria tecnica, al perfezionismo stilistico e, non ultimo, al suo antifascismo militante, contribuirono a farne un personaggio unico nella storia della direzione musicale. Fu, contro la sua volontà, il primo grande divo del podio, e ne ricevette testimonianza dalle copertine dei rotocalchi, dai francobolli stampati in suo onore e dalla marea di folla che seguì i suoi funerali. Bernstein e Von Karajan, tanto bravi quanto esibizionisti, seppero costruirsi un’immagine più fascinosa, aiutati da un physique du role più seducente e da videoregistrazioni tecnicamente più avanzate. Ma nessuno dei due raggiunse il magnetismo catartico di questo vegliardo che si faceva amare dagli orchestrati anche quando li copriva di imprecazioni blasfeme. Ancora oggi, rivedendo le prove dei suoi concerti, si coglie la potenza di un’energia quasi metafisica. Forse correva troppo perché il suo dinamismo era senza freni.
PRODIGIOSO
E allora cosa fu Toscanini? Fu certamente un prodigio di tecnica e di memoria musicale, assistite da uno studio assiduo, da un’esasperata ricerca perfezionistica, da una disciplina rigorosa e da una sicurezza quasi proterva sulle proprie capacità interpretative. Ma fu anche un esempio di straordinario vigore etico, di coerenza ideale, di virtù civili e di fede appassionata. Anziano, e esule, organizzò a New York, in pochi anni, un’orchestra che condusse ai vertici esecutivi, prospettando agli americani l’impossibile miracolo di emulare gli angeli della Filarmonica di Berlino, allora condannati all’inferno hitleriano. Di idee socialiste, vide negli Stati Uniti i difensori della libertà e della civiltà occidentale. Come i nostri Pertini, Pacciardi e Saragat sapeva che la pace si ottiene talvolta con le armi, senza indulgere a utopistici e imbelli irenismi. E soprattutto dimostrò che Wagner non era monopolio di un’ideologia criminale e malata.