La Stampa, 20 luglio 2018
Le storie di Lafcadio Hearn, greco-irlandese tra gli spiriti del Sol Levante
Se è vero che il destino di un uomo è scritto nel suo nome, quello di Lafcadio Hearn pone più di un interrogativo. Venne chiamato come l’isola in cui nacque, Lefkada, più nota come Leucade, un grosso sasso bianco piantato nel mare Ionio dalle cui pareti a stropiombo pare abbiano trovato la morte la poetessa Saffo e altri innamorati. Malgrado il nome che portava, Lafcadio venne però strappato al luogo di origine ancora bambino. Appena quattrenne, finì in un’altra isola, molto più grande, quella del padre, un irlandese sempre in giro per il mondo.
Ce lo portò la madre, una greca un po’ squilibrata, che se ne tornò presto a casa, stanca dei rigori del Nord, mollando il figlio alla famiglia del marito, che dovette vedere in quel piccolo, scuro di pelle e di capelli, più uno zingaro che un parente. Il monaco si adattò all’abito. La vita di Lafcadio si rivelò zingaresca e inquieta come il suo aspetto lasciava presagire. Venne affidato a una zia, studiò in Francia e nella contea di Durham, dove compromise per sempre l’occhio sinistro giocando con i compagni. Fu poi a Londra, dove visse ospite di un ex cameriera della zia, e ancora dopo in America, dove venne scaricato dai parenti che avrebbero dovuto accoglierlo. Si guadagnò il soprannome di Corvo per l’aspetto emaciato, ma anche perché adorava Poe. Venne assunto da un tipografo e, dall’iniziale mansione di guardiano e fattorino, passò in tempi rapidi a quella di correttore di bozze, fino a convertirsi in traduttore dal francese e poi in pubblicista, assumendo una serie di fantasiosi pseudonomi – Fiat Lux, Ozias Midwinter, Old Semicolon – scrivendo degli argomenti più strani.
Il nuovo nome
Acquistò fama di uomo notturno, bazzicatore di fumerie d’oppio e bordelli, interessato al sangue e al sesso con le donne nere, che nell’America di allora – quella del secondo Ottocento – erano ancora «negre» e costituivano motivo di scandalo. Una se la sposò pure, una mulatta diciottenne e madre di un bimbo illegittimo. L’unione fu breve quanto non valida per la legge del tempo, ma gli valse comunque il ben servito dal giornale per cui scriveva. Molte ancora le peripezie da ricordare. Molti ancora gli spostamenti in altri lidi. New Orleans, che lo stregò. L’isola di Manhattan, che detestò. L’aspra isola della Martinica dove si era insediato Gauguin. E poi, finalmente, l’ultima grande partenza, quella decisiva e che, forse senza saperlo, Lafcadio Hearn aveva atteso da sempre. Il 17 marzo 1890 salpò per un Paese tutto isole, il Sol Levante. I soldi per il viaggio se li era procurati traducendo in due settimane un romanzo di Anatole France. Il piano era quello di esplorare, ricavare materiali per un libro che raccontasse al lettore occidentale la vita di un Paese ancora velato dal mistero. Non tornerà più. Rinuncerà alla cittadinanza britannica. Sposerà la discendente di una famiglia di ex samurai. Cambierà nome facendosi chiamare Koizumu Yakumo. Di libri non ne scriverà uno, ma ben dodici. Libri in cui Lafcadio, non tradendo la sua natura erratica e multiforme, sonda l’insondabile anima del Giappone in ogni sua forma, incluse le più impensate.
Superstizioni e leggende
Un motivo ricorrente tuttavia c’è: l’interesse per le storie popolari. «Senza conoscere superstizioni e leggende popolari non sarà mai possibile una vera comprensione della narrativa e del teatro giapponesi», ammoniva Lafcadio. Di questo lato della sua opera, in tutto una cinquantina di brevi testi sparsi in vari volumi, Ottavio Fatica ha curato Ombre giapponesi (pp. 320, €15), una devota e sapiente selezione ora disponibile presso Adelphi, nella Piccola Biblioteca. E basterebbe l’incantevole immagine di copertina per farne un breviario irrinunciabile. All’interno, una fantasmagoria notturna e lieve dove tutto è illusione tranne il richiamo dei morti. Strani granchi con volti umani sul guscio. Spiriti che vengono inghiottiti bevendo una tazza di tè. Racconti? Favole? Sia l’uno sia l’altro, ma anche qualcosa di più e di meno. Qualcosa di sfuggente e impalpabile. Storie che svaniscono nell’attimo stesso in cui sembra di coglierne il senso, lasciando tuttavia l’impressione che un’epifania essenziale seppure fugace sia scorsa sotto i nostri occhi di lettori.
Ombre, come suggerisce il titolo. Ombre tanto della bellezza del Giappone e dei suoi antichi fantasmi, quanto dello stesso Lafcadio, che in Giappone si è innestato con partecipazione e amori assoluti. Ombre che in fondo sono anche «traduzioni all’ennesima potenza», come suggerisce il curatore, giacché in effetti questo fa un traduttore: si incorpora nell’altro al punto di diventarne un’ombra. Che è poi quel che fa pure ogni vero lettore o chiunque si sforzi di capire e amare.