il Fatto Quotidiano, 20 luglio 2018
Guareschi, morto cinquant’anni fa
Chissà chi lo sa, oggi, chi è Giovannino Guareschi, il papà di Don Camillo? Scrittore, disegnatore e giornalista, Guareschi – formidabile propagandista qual è – costringe alla sconfitta elettorale nel 1948 il fronte popolare socialcomunista.
Suo, infatti, è lo slogan “Nel segreto dell’urna Dio ti vede, Stalin no”.
Non di vaghe tendenze destrorse “ma di destra nel modo più deciso e inequivocabile”, Guareschi che spopola nelle librerie, tradotto nelle principali lingue – “eccettuata quella italiana”, così diceva – con la sua stazza imponente e il suo baffone (lo stesso di Peppone, il suo alter ego comunista), abita l’immaginario e il sentimento di milioni di lettori al mondo, forte di un vocabolario di sole cento parole.
Baciato dalla sancta simplicitas degli umili, Guareschi è così immerso nella grazia del suo credo – il Re, Cristo e la Patria – che ogni suo racconto, in quelle case odorose di canfora e di pulito, è come un riquadro nel calendario dei frati cappuccini.
Il Santo Padre a suo tempo regnante – Giovanni XXIII – gli chiede di redigere il Catechismo ma lui appunto, umile, dice no: “Non ne sono degno”.
Eppure è grazie a lui, al suo Mondo Piccolo – gemmato da uno “sperduto e ignoto villaggio della Bassa, chiamato Fontanelle” – che il Firmamento acquista un nuovo santo.
È Don Camillo, il suo personaggio, vero più di chiunque altro negli Altari in virtù di quel carisma di sacrissime legnate, tutte sacrosante, da darsi tra nemici affratellati da un unico destino.
Ed è sempre – questa è la pietas, ancora più che carità – il saper dare quel poco che si ha: sia esso un cazzotto, o un pezzo di pane.
Chissà chi lo sa, oggi – giusto adesso che la guerra civile degli italiani non è finita – quanto fosse innamorato della vita il pur incandescente mondo diviso tra la metà al seguito dell’Unione Sovietica e l’altra mezza parte sotto l’ombrello degli americani.
E Guareschi che muore nel 1968, coerente anche nell’uscita di scena, attraversa la scena italiana con la consapevolezza di un bastian contrario.
In una vignetta disegna se stesso all’uscita del lager tedesco dov’è stato internato.
Lacero e smagrito – ha perso 40 chili durante la prigionia – s’incammina verso casa. A un bivio incontra uno del paese e gli chiede – “Dove va il mondo?” – la risposta di quello, “a sinistra!”, lo convince della direzione già intrapresa: “Allora io vado a destra”.
Fondatore di Candido, “l’ebdomadario milanese”, Guareschi che in guerra è deportato in Germania, quindi liberato dagli inglesi, infine – come dirà – “liberato dagli americani dai suoi liberatori inglesi”, si fa la galera in tempo di pace.
Spedito in carcere dalla Democrazia cristiana – “tredici mesi di prigione per avere scritto cose sgradevoli contro il leader del partito più forte” – Guareschi è un giornalista di successo, divisivo si direbbe con il linguaggio corrente e ancora prima, finita la guerra, ha il suo battesimo con le rogne giudiziarie: “La maggioranza degli italiani voleva ancora il Re, ma nel 1946 comandavano i repubblicani e, quindi, vinse la Repubblica che mi riuscì subito cordialmente antipatica; e avendolo io comunicato ai lettori del mio giornale, fui processato e condannato”.
Figurarsi se oggi qualcuno si sogna di dare del “liberticida” ad Alcide De Gasperi che portava alla sbarra un giornalista ma questo è, questo fecero a Guareschi ma lui il fatto suo lo sa: “significa che, in fondo” – si legge nel risvolto de Il compagno Don Camillo – “non deve sbagliare chi asserisce che io sono un dannato rompiscatole il cui principale scopo par quello di riuscire odioso a tutti”.
Tantissimi lo amano ma chi di dovere – l’élite, i potentati, e figurarsi gli acculturati dell’intrallazzo letterario – lo odia.
Da un lato c’è Pier Paolo Pasolini, dall’altro c’è lui. Si ritrovano a fare un film insieme, due episodi di un unico titolo: La Rabbia.
A differenza di Bernardo Bertolucci che non vorrà mai vedere Ultimo tango a Zagarolo di Franco Franchi temendo di scoprirlo più bello del suo – Ultimo tango a Parigi – Pasolini vede “il visto da destra” di Guareschi ma già sa di vincere facile. Tutti già diranno peste di quello, l’omone di Brescello.
Nessuna autorità civile – non un solo messaggio – è presente ai suoi funerali.
La sua bara, avvolta nel tricolore, ripugna tutti i giornali, tutti, perfino nel dare notizia della scomparsa.
Fa eccezione, a suo modo, l’Unità: “Muore lo scrittore che non era mai nato”.
A piangerlo in chiesa, tra i familiari, c’è Enzo Biagi.
Chissà chi lo sa che con le repliche dei Don Camillo a Rete4, Guareschi che fu anche scrittore di gioielli perfetti quali Il Destino si chiama Clotilde o Favola di Natale, il suo racconto intimo della deportazione nel lager, si conferma nei grandi numeri propri della smagliante popolarità. Il suo prete – il cui logo, ricordiamolo, è costruito tutto con i nodosi randelli delle legnate – è stato, ieri, quello che il Commissario Montalbano è oggi, l’eroe di tutti, belli e brutti.
Estraneo a questo nostro tempo, Guareschi – intimo agli italiani – è stato subito estraneo all’Italia.
Lo sapeva, e lo scriveva: “L’attuale generazione d’italiani è quella dei dritti, degli obiettori di coscienza, degli antinazionalisti, dei negristi ed è cresciuta alla scuola della corruzione politica, del cinema neorealista e della letteratura social-sessuale di sinistra”.
Sapeva di sé, Guareschi.
E chissà. Come la fine di una storia che non finisce mai.