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 2018  luglio 20 Venerdì calendario

Castellucci e i Tormenti di Salome

Il suo Manifesto artistico si può riassumere così: «Tutto è lecito, se c’è una coerenza drammaturgica». Romeo Castellucci e la sua estetica iconoclasta, radicale; il suo punto di vista discutibile, controverso e comunque pieno di idee. Al Festival di Salisburgo il 28, con Salome di Richard Strauss diretta da Franz-Welser Möst, fa il suo debutto assoluto un protagonista dell’avanguardia teatrale, parola che secondo lui poteva avere qualche significato un secolo fa: «Lo strappo per lo strappo non ha più senso». Da pochi anni l’ex Leone d’oro alla Biennale teatro (nato a Cesena nel 1960, si dedica anche all’opera e procede al ritmo di tre regie all’anno: «Ho lavorato in tutte le Fondazioni liriche, tranne che alla Scala».
Eccolo alle prese col fascino lunare di una giovane donna attratta dal profeta Jochaan, Giovanni Battista, rinchiuso in una cisterna, di cui chiederà la testa. Il regista giocherà con lo spazio della Felsenreitschule, l’ex scuola di equitazione scavata nella montagna, che si fa personaggio, c’è anche un cavallo in scena. Accusato dai cattolici più severi per uno spettacolo sul figlio di Dio dove c’erano crisi di dissenteria, Castellucci esordì nella lirica con un Parsifal desacralizzato, con un cane e un serpente veri, e le fanciulle appese in aria con delle funi. Eppure è attratto dal sacro, dice che l’arte nasce come gesto sacro, «l’arte e la fede vanno mano nella mano». In Salome avrà pane per i suoi denti: «Sì, c’è una miscela esplosiva tra religione e erotismo. Alla fine qui il sacro è rappresentato da Giovanni, mentre Salome è la persona “crocifissa”. I ruoli si scambiano, il santo, per me, è Salome, che viene uccisa da Erode perché si rende pericolosa, con il suo comportamento ha infranto le regole sociali, mentre Giovanni per lei è amore e liberazione. Ed è vittima di se stessa perché non conosce la vita, è inesperta». 
Ha compiuto un viaggio dentro di lei (sarà la lituana Asmik Grigorian), bambina prima, sensuale poi, infine imperativa («Farai questo per me»). Aspetteranno al varco Castellucci nei due momenti topici, la danza dei sette veli e il monologo di Salome, quando bacia la bocca coperta di sangue della testa mozzata del profeta. «La danza non c’è, sarà una specie di paralisi di Salome per Giovanni, di cui è veramente innamorata. Si innamora del suo linguaggio, della sua voce, infine del suo corpo. E non c’è nessun bagno di sangue». Dice di conoscere bene la materia letteraria di Oscar Wilde. «Il grande pericolo di questi titoli iconici è di cadere nello stereotipo. Si tratta di adottare una strategia, non per stravolgere le cose, sarebbe anche troppo semplice». Cominciamo da cosa non bisogna fare in questo capolavoro che segna l’inizio del teatro moderno, tra zone tonali e lacerazioni atonali. «Non bisogna attualizzare, non basta cambiare il costume di scena. E lei, Salome, non va schiacciata sulla realtà e sulla cronaca, magari facendone il simbolo del #MeToo, il movimento nato dopo le molestie sessuali». Allora? «Il mio taglio è di tipo psicoanalitico, o meglio psichico. Non sarà un’illustrazione, cercherò di aumentare ogni ambiguità dei personaggi (per esempio Erode non è così negativo); lo spettacolo dovrà vibrare nel cuore di ogni spettatore, parafrasando Flaubert, Salome sono io». Però Castellucci è il regista che vuole dar vita a «un teatro barbarico e selvaggio», e in questo atto unico glielo servono su un piatto d’argento. «Ci sono immagini antropologicamente forti però, lo ripeto, non voglio il solito bagno di sangue stereotipato». 
Per Castellucci, agenda satura fino al 2022. «La mia esperienza è assolutamente legata ai teatri all’estero. A Parigi rappresenterò l’Oratorio di Alessandro Scarlatti Il primo omicidio, su Caino, mai andato in forma scenica; a Bruxelles Il Flauto magico». Senta, quando le danno del provocatore…«È una parola terribile che non pronuncerei mai, io mi muovo nel contesto della rappresentazione classica. Credo in un teatro contemporaneo in contatto con l’immagine e l’arte visiva; non credo nella divisione manichea fra tradizione e innovazione. Certo non si può andare avanti con allestimenti in repertorio da trent’anni».