la Repubblica, 20 luglio 2018
Ma la piccola Jennifer non è di certo una Lolita
Il suo primo amore era stato magico, lei adolescente e matura, lui adulto ma con la faccia di ragazzo buono e la dolcezza dei modi, innamorato di lei, innamorata: «Siamo due gocce d’acqua» lui le diceva. È così che l’ultra quarantenne documentarista e insegnante Jennifer, Laura Dern tutta capelli, si è imposta di ricordare quell’estate dei suoi tredici anni, nel 1973, quando nei fine settimana frequentava una scuola di equitazione, con altre sue coetanee: la direttrice, Mrs. G. Elizabeth Debicki, era molto bella e materna, il maestro era quel seducente e sorridente Bill, Jason Ritter: l’affettuosa signora era sposata, lui no, insieme avevano confidato solo a lei, perché solo lei poteva capire, di essere amanti.
Adesso è il 2008, Jennifer se la gode con un magnifico gigante nero tenerissimo, il rapper Common, quando sua madre, Ellen Burstyn, la chiama allarmata: ha trovato un suo compito di scuola media del 1973, in cui è descritta un’esperienza d’amore; quell’anno lontano, l’insegnante era rimasta turbata leggendolo, ma la ragazzina l’aveva rassicurata, era solo una sua fantasia, “the tale”.
Per più di 30 anni Jennifer ha sospeso la memoria della sua adolescenza sfuggendo alla verità, rifiutando il ruolo di vittima, inventandosi una forza e una padronanza di sé che l’hanno costretta all’insofferenza per gli affetti profondi.
Il film è scritto e diretto da Jennifer Fox, che ha dato il suo nome e la sua professione alla protagonista: e pure la sua storia vera. Quell’episodio nero della sua adolescenza, e poi, adulta, improvvisamente il bisogno confuso, doloroso e sconvolgente di sapere, di smascherare il ricordo che si è imposta, per arrivare alla realtà di ciò che è stato veramente, non un primo amore ma un’ignobile sopraffazione.
Il film, prodotto da Hbo, è stato presentato al Sundance Film Festival, ed è interessante leggere lo spavento dei critici maschi. Lodando la forza di The tale,apprezzando moltissimo il coraggio dell’autrice, si dicono indignati della criminalità di certi uomini (loro neppure una svagata molestia, mai, ovvio), un paio anche si sente addirittura male dopo le scene di sesso, la cui crudezza in realtà è lasciata all’immaginazione (perversa?) dello spettatore.
E c’è anche chi colpevolizza il senso di libertà non solo sessuale degli anni 70 (come se adesso malgrado il porno web con tredicenni e novantenni, vivessimo in una diffusa decenza). Con un intuito davvero ammirevole, Fox fa interpretare se stessa tredicenne da due attrici diverse, quella del ricordo distorto e quella vera; la prima, Jessica Sarah Flaum, è una graziosa ragazza che pare almeno sedicenne, la seconda, Isabelle Nélisse, è una preadolescente, una bambina dal corpicino impubere.
Jennifer scopre la verità ritrovando una sua fotografia d’epoca; lei non era quella svelta adolescente del ricordo, lei era la bambina dimenticata cui fu imposta un’esperienza orribile. Inizia per la protagonista un ritorno al passato. Come in un thriller va alla ricerca dei personaggi di cui non sa nulla da decenni, rintraccia le compagne di allora, l’affascinante Mrs G. che è diventata una donna anziana e smemorata, e finalmente Bill, che è – e forse addirittura era stato ai tempi della violenza — un omone volgare che adesso ha una bella giovane moglie di colore. Del tanto dolore che ha incrinato la vita di bambina e di donna di Jennifer, i colpevoli non si ricordano più, è stato per loro un episodio senza importanza come tanti.
All’inizio del film la regista informa che si tratta di “una storia vera, almeno per quello che ne so io” e una scritta avverte che tutte le scene di sesso sono interpretate da ragazze maggiorenni: del resto dei corpi nudi non si vede nulla e forse è anche peggio, perché la macchina da presa è ferma su quel volto di bambina consenziente e indifesa, su cui si alternano ansia, stupore, attesa di una cosa bella, di un dono da adulta, che diventa una dolente, umiliante e incomprensibile ferita.
Jennifer non è Lolita (“Luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia”). Non è Patrick Melrose, stuprato bambino dal padre, della saga di St. Aubyn e adesso su Sky, drogato e alcolizzato, col volto di Benedict Cumberbatch.È una bambina che non si sente amata in una casa gremita di fratelli e sorelle, madre indaffarata padre distratto, in cui nessuno percepisce il suo smarrimento, è una bambina che vuole sentirsi grande, che vuole affetto, fiducia, protezione, e le trova nelle attenzioni per lei dolcissime di un adulto e della sua amante impegnati in un loro gioco malvagio.
Il film passa stasera su Sky Cinema Uno. Jordan Hoffman critico dell’inglese The Guardian raccomanda di non lasciarselo sfuggire, perché è «innovativo, onesto e importante. Una pietra miliare. Però di sicuro non lo rivedrò». Male, dovrebbero vederlo anche gli adolescenti, femmine e maschi, oggi sperduti nelle trappole dei loro smartphone, per capire quanto sia fragile la loro vita vera.