Per esempio?
«I roccocò, quei dolci a base di mandorle, miele e cannella. Erano sontuosissimi ma durissimi, infatti mi ruppi pure un dente. Le cassatine, le sfogliatelle. Ma anche la genovese e la frittata di maccheroni senza le uova, quella bianca con gli spaghetti, i capperi e le olive. E poi c’erano i cibi delle truppe americane».
I piatti della Liberazione?
«Sì, ricordo ancora uno spezzatino con fagioli e verdure che si chiamava meat on vegetables, buonissimo, poi condito con la fame di allora…».
Un mangiare da Tammurriata nera. Gastronomicamente parlando, ti senti napoletano o romano?
«Napoletanissimo, soprattutto da quando sono andato via da Napoli. Però mi sono “ autoscodellato” una consorte partenopea. Cucina benissimo, quando le va».
Qual è il piatto che le riesce meglio?
« Il timballo di maccheroni in crosta dolce. Semplicemente meraviglioso!».
In cucina la aiuti?
«Sì, ma come addetto ai lavori di bassa manovalanza. Faccio le polpettine per la lasagna. E a Natale gli struffoli, sempre palline sono. In cucina mia moglie recupera una vocazione al padronato nei miei confronti. Il cucchiaio lo impugna lei. Mi mette davanti l’impasto, una specie di pastone delle galline ed io… sferifico».
A proposito di galline, perché nel 1963 hai deciso di fare “Il pollo ruspante”?
«In quel periodo ero un cocchetto di Roberto Rossellini che ebbe l’idea di coinvolgere Pasolini, Godard e il sottoscritto in un film in quattro episodi sulla società dei consumi che allora stava nascendo. Il tema era la riduzione del cittadino a consumatore. Il film si intitola RoGoPaG, le iniziali dei nostri cognomi. Erano nati i primi supermarket, la gente scopriva che si potevano prendere le cose dagli scaffali senza la vigilanza dei commessi e poi passare alla cassa. Sembrava una festa dell’abbondanza. Andarono tutti fuori tema, tranne me. Pasolini fece La ricotta, ormai un classico. Godard, se ne fregò altamente del progetto iniziale. Perfino Rossellini divagò. Io, invece, da scolaretto ubbidiente, svolsi il compito che mi era stato assegnato».
Da allora il pollo ruspante è diventato una metafora della resistenza a un mercato che vuole trasformarci in polli di batteria. In compratori compulsivi. L’opposto del pollo ruspante descritto da Ugo Tognazzi, che è libero. Mangia e vive come gli va, senza farsi condizionare. In quel film c’è già l’Italia di oggi?
«Di fatto anticipa la tendenza alla mercificazione, del cibo come della vita. Un fenomeno che non si è ancora esaurito. Anzi, si è ingrandito, incancrenito, ingigantito, nevrotizzato. E ha stravolto la nostra esistenza».
Nel 1964 hai diretto Totò in “Le belle famiglie”. Che ricordo hai di lui?
«Un ricordo gastronomico. Un giorno, durante la pausa pranzo, passeggiavo nei vialetti della casa discografica Rca, dove stavamo girando. A un certo punto vedo un praticabile alto perlomeno ottanta centimetri con sopra un completino da campeggio, dove troneggiava il Principe de Curtis assiso su una poltroncina. Alle sue spalle c’era una governante che gli porgeva delle legumiere fumanti. Io avevo in mano il mio misero cestino. Un po’ mortificato, pensai che mi avrebbe considerato proprio un pezzente. Invece mi chiamò: “Dottor Gregoretti, favorite!”. E mi fece sedere sulla piattaforma, praticamente all’altezza delle sue ginocchia. Sai come quei quadri del Rinascimento con le Madonne sopra e i santi sotto. A un certo punto la governante scoperchiò una zuppiera che conteneva dei peperoncini, quelli verdi napoletani. Totò ne infilzò uno e me lo porse dicendo “dottor Gregoretti, favorite un puparuolo?”. Mangiai il puparuolo manifestando grande apprezzamento. A quel punto lui si sciolse e mi disse “dottor Gregoretti, diamoci del tu!”».
Fra l’altro Totò all’inizio non aveva accettato di fare quel film. Come lo hai convinto?
«Con un colpo basso. Sapevo che lui portava sulle spalle il gravame della sua aristocraticità tardivamente riconosciuta. Così un giorno, mentre parlavamo del meteo, buttai lì: “Eh sì, anche mia moglie, la duchessa Capece Minutolo, patisce tanto la calura”. Sobbalzò e disse “ ma allora siamo tra persone per bene!”. E accettò».
L’ultima volta che abbiamo pranzato insieme era per il festeggiamento della laurea honoris causa in Scienze dello spettacolo che ti ha conferito l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, dove hai insegnato a lungo sceneggiatura. Dopo un’odissea di antipasti e una “erodiade” di pesciolini fritti, la cosiddetta neonata, hai mangiato anche il sartù.
«Tenevo appetito! In effetti davanti alla cucina napoletana non mi controllo. Non è mai banale. Se ricordi bene, alla fine ho preso anche il babà».
Tu hai fatto la storia della televisione italiana, potresti negarlo con civetteria, ma nessuno ti crederebbe. Come è cambiata la rappresentazione del cibo in Tv da Mario Soldati ad Antonella Clerici?
«Mi ricordo molto bene Viaggio nella valle del Po di Mario Soldati, perché era un capolavoro. Oltre che di erudizione culinaria, anche di trovate, di invenzioni cinematografiche, di ricerca felice di personaggi, di ambienti. Dopo, confesso, che la televisione di Antonietta…».
Antonella!
«Ah sì, Clerici, non so… questa moltiplicazione dei banchi di cucina mi lascia un po’ così. L’altro giorno ho cambiato tre canali, in tutti e tre c’era qualcuno che faceva una frittatina, un sughetto, un risotto. Mi sono detto che forse questo è un surrogato del cibo reale. Comunque l’alimentazione ridotta a spettacolo non mi piace».
Secondo te qual è il cibo simbolo dell’identità italiana?
«Il castagnaccio. Prima di tutto perché è buono. Poi perché è un cibo contadino, tradizionale, genuino, nostrano. Poi ha quel nome toscano, bello sgarbato… “castagnaccio”. Suona come un’invettiva. Peccato che è quasi scomparso. Ho molta nostalgia del castagnaccio, forse perché durante la guerra era quel che oggi sono la Saint Honoré, il Mont blanc, il Tiramisù. Ma forse anche di più. Era il maggior lusso dolciario che la mia famiglia si potesse concedere. Magari servito comme il faut, ma sempre castagnaccio era».
Dietro il castagnaccio c’è il ricordo di un’Italia povera ma bella.
«Sì, un’Italia povera, cortese e solidale. Io ero un adolescente e sentivo l’affetto delle persone che mi circondavano, anche di quelle sconosciute. Oggi faccio fatica a riconoscerla».