la Repubblica, 19 luglio 2018
Il lato selvatico dello chef Cracco
C’era una volta un cuoco. Bello, timido, ruvido. Migrante gastronomico dalla campagna vicentina (mai sentito parlare del broccolo fiolaro di Creazzo?) – alla corte dei più grandi ristoranti italiani. Molta acqua è passata sotto i ponti della vita di Carlo Cracco. Numeri in ordine crescente: una stella Michelin ( oggi, ma due fino a ieri), due mogli, tre ristoranti, quattro figli, una manciata di campagne pubblicitarie, tanta televisione. Un’ubriacatura di notorietà e agiatezza da cui può essere molto complicato rinsavire.
Senza nulla negare – com’è normale che sia – e corroborato dal buon vivere di cui sopra, Cracco ha deciso di riprendere in mano il filo del suo mestiere là dove si era interrotto, ovvero dalla cucina. Traslata di poche centinaia di metri – da Via Victor Hugo in Galleria – e ricavata all’interno di un palazzo storicissimo, condiviso con alcune tra le più importanti firme commerciali della città. Ma l’affaccio strepitoso che toglie il fiato a chiunque ami Milano non era sufficiente a dare il senso compiuto della nuova avventura. Così, tra un piatto e l’altro del menù, dove insalata russa caramellata, tuorlo d’uovo marinato e riso allo zafferano con midollo alla piastra fanno ancora e sempre bella mostra di sé, si sono affacciate le erbe selvatiche.Il foraging — l’attività di raccogliere erbe e frutta selvatica codificata all’inizio del terzo millennio dalla cucina nordica – in realtà è storia millenaria dell’uomo, tra tentativi, inciampi ( le erbe velenose) e meravigliose scoperte ad alto tasso gastronomico. Negli anni, il foraging è diventato un mestiere, soprattutto a supporto dei ristoranti urbani: dalla minestra maritata di Gennaro Esposito alle mirabolanti insalate di Enrico Crippa, è stato tutto un germogliare di piatti con l’impronta wild.
Eleonora Matarrese è qualcosa di più che un’esperta raccoglitrice, avendo introiettato i saperi botanico- culinari della nonna pugliese, integrati con lo studio di campagne e montagne di Lombardia, la sua regione d’adozione. Arrivata a Milano nei primi anni duemila con in mano il doppio mestiere di traduttrice e organizzatrice d’eventi di moda, Eleonora ha vissuto per dieci anni una vita binaria: di giorno nelle maison di via Montenapoleone, la sera in una cascina di Tregasio, il paese dove Manzoni fa incontrare i Bravi e Don Abbondio. Memoria d’infanzia e curiosità senza requie hanno fatto il resto, in un rincorrersi di studi botanici e talento culinario tradotti in un blog, “La cucina del bosco”, e in un ristorante vegetariano/vegano, il Pikniq (erba giavone in lingua Inuit) di stretta fattura casalinga. «Volevo che la gente recuperasse i gusti naturali lasciati alle spalle insieme alla povertà del dopoguerra. Io per esempio non ho mai bevuto l’aranciata in bottiglia. Mia nonna raccoglieva la spirea, che ha le foglie piene di acido acetilsalicilico ( da cui l’a- spirina, senza spirea, perché prodotto di sintesi e non da estratto naturale) e ne metteva i fiori profumatissimi in acqua e zucchero. La fermentazione faceva diventare la bevanda frizzante e il gusto era fantastico».
Cracco, pur sollecitato da amici e clienti entusiasti, non è mai riuscito ad andare a mangiare al Pikniq. «C’era sempre un contrattempo che si metteva di traverso. Poi il locale ha chiuso perché Eleonora è stata poco bene ed era da sola. Ma sono riuscito a contattarla ed è stata la fortuna di tutti e due». La figura nuova è quella di fornitrice e consulente, «perché il punto non è tanto conoscere le erbe e trovarle, ma avere confidenza con le mille possibilità di utilizzarle e all’occorrenza saperle trasformare in semilavorati. Erbe mai sentite prima come l’alium vineale – una specie di aglio profumato e delicatissimo – che non sapevo fossero commestibili, come le foglie di begonia e i carnosi germogli di abete rosso. Oppure l’acetosella. Quella che trovi in giro sa di poco, mentre quando me l’ha fatta assaggiare lei ho fatto un salto sulla sedia! Rustica, tenace, in frigo dopo quindici giorni ancora profuma, da sola regge il piatto».
Il filetto di cervo in crosta di farinello verrà inserito in menù a settembre. Il farinello ( chenopodium album) appartiene alla famiglia degli spinaci, odoroso e concentrato all’ennesima potenza. Essiccato al sole e ridotto in polvere, viene impastato con farina e steso a sfoglia per accogliere la carne leggermente rosolata. Cracco deve ancora decidere con che salsa accompagnarlo: pesche e rosmarino, oppure vino Teroldego e ciliegie, di cui ha fatto incetta, abbattendo il succo freschissimo. «Quello che non cambia è l’esplosione di gusto in bocca. È come rimettere tutto al posto giusto: l’animale, il bosco e quei sentori di natura che in città abbiamo dimenticato».