Il maestro Sergio Castellitto guida i ragazzi con lo sguardo. «Volevo raccontare gli artigiani da una vita» dice Cinzia Th Torrini, autrice e regista della nuova serie Rai Pezzi unici «le antiche botteghe chiudono perché non c’è ricambio. Sono al nostro fianco la Regione Toscana, la Film Commission i comuni di Firenze e Prato. Raccontiamo come cinque ragazzi borderline imparano il mestiere: Vanni, il maestro, doveva essere burbero e riabilitare se stesso. Sergio era perfetto».
Dal Grande cocomero a Don Milani, passando per Vassallo, il sindaco pescatore, il giudice Chinnici, il Moro professore fino al medico di Lampedusa Pietro Bartolo, Castellitto ha interpretato tanti maestri. «Maestri di vita, ma disposti a imparare» spiega l’attore, asciutto e sorridente «perché in Italia è pieno di gente che non sa ascoltare».
Gira una serie di dodici episodi: cosa l’ha convinta a tornare in tv?
«La prima volta che ho letto la sceneggiatura ho pensato a questo artigiano come a un “Geppetto furioso”. Mi è piaciuta la scrittura, che non è semplicistica. Va a fondo. Se le battute sono di plastica o d’acciaio lo capisci subito. I ragazzi sono credibili, nel cast c’è Giorgio Panariello è un uomo che adoro, ha una grande umanità. Pensi che lo volevo in Non ti muovere, ma era impegnato. Ci siamo ritrovati qui.
Cinzia è legatissima a questo progetto perché racconta la sua città, è un omaggio al talento di uomini che creano la bellezza».
Chi è Vanni Bandinelli?
«Un uomo inadeguato che ha un passato doloroso, ha perso un figlio con cui aveva un rapporto conflittuale. La serie racconta una linea emozionale, l’incontro con questi cinque ragazzi scapestrati. E una linea gialla: l’ossessione di Vanni per la verità sulla morte del figlio. È anche la storia di una rieducazione alla paternità all’occuparsi dei figli, dei giovani. Ci riempiamo tutti la bocca con questa parola — giovani — ma poi?».
In questa storia s’insegna ai giovani un mestiere.
«Sì. Vanni educando alla vita i ragazzi educa se stesso, scoprirà quanti errori ha fatto nei confronti del figlio e della moglie. Diventerà una persona migliore».
La sua carriera dice che ha un
debole per i ruoli del maestro.
«Mi piacciono quando sono maestri e poco professori, l’Italia è piena di professori. Il vero maestro rimane studente, continua a imparare dagli allievi. Vanni capisce che non si tratta solo di piallare una figura, ma che nella vita si vince se ci si ferma, si esce da se stessi e ci si sforza di guardare due metri più in là».
Lei lo fa?
«Per la verità, cerco di farlo continuamente».
Interpreta un artigiano che crea con le mani, si prende il suo tempo in tempi sempre più veloci: che effetto fa?
«Questo è il punto. Mi piace che in un’epoca digitale, inodore, si racconti un mestiere fatto del profumo del legno, di rumori; l’idea di tornare alla materia viva, plasmata dalle mani. Parliamo di gente che si sporca le mani, torniamo a parlare di operai. Ci siamo ridotti così anche perché l’Italia si è dimenticata di loro».
Come vede il Paese?
«No, guardi di politica non parlo.
Parliamo della bellezza, di luoghi che sembrano fuori dal tempo in cui senti il profumo del legno e della ruggine».
Si rifugia nel passato?
«L’atmosfera è vintage quindi moderna. Tornare alla materia in un momento in cui sembra che non si possa fare a meno di essere Instagramati, Facebookati, Whatsappati, mi sembra bellissimo. Il protagonista usa il telefonino due, tre volte al massimo. Mi piacerebbe che si fermasse in una cabina telefonica come avrebbe fatto Mastroianni».
Lo ricorda con rimpianto?
«Immenso. Ricordo l’affettuosità di Piccoli, la dolcezza di Gassmann, la fratellanza di Marcello. Attori che non se la raccontavano più di tanto.
Mastroianni aveva ancora un po’ di panico sul set, non era mai supponente. Un attore deve sentirsi inadeguato, pensare che potrebbe non ricordare la battuta. Non deve mostrarlo ma intimamente deve trovarsi davanti a un piccolo baratro. Per noi attori il panico è la vera benzina».
Ha girato fiction in tempi non sospetti: non ha mai temuto di essere messo da parte dal cinema?
«Non sono mai stato strategico nelle scelte ma istintivo, non mi sono mai fatto fregare da quella forma di perbenismo per cui se fai il cinema non fai la tv. Cerco sempre di fare qualcosa che non assomigli alla cosa che ho appena fatto. Ho interpretato Padre Pio e subito Ernesto Picciafuoco nell’Ora di religione con Marco Bellocchio. Oggi non dico più che recito, ma che racconto. Un regista mi diceva sempre: “Fatevi venire almeno una seconda idea, perché la prima è già venuta a qualcun altro”».
Le serie hanno cambiato il linguaggio televisivo?
«Sono più interessanti del cinema perché permettono di approfondire i personaggi, la grammatica cinematografica deve stare dentro un’ora e mezza. Non ho mai pensato che la tv sia inferiore. La maggior parte delle cose interessanti vengono dalle serie: penso a Sky, a Netflix. La stessa Rai ha innovato il linguaggio. La concorrenza creativa obbliga a lavorare sulla scrittura».
Ha girato ottanta film: il migliore?
«Non credo nelle carriere integerrime, ho fatto errori. Il film migliore è Non ti muovere perché è il compimento di un lavoro artistico e umano. Ha rappresentato l’inizio della collaborazione con Margaret (Mazzantini, la moglie ndr). In tv sono fiero di In treatment: 105 episodi dove la parola era regina.
Ma ho un ricordo bellissimo di progetti nazionalpopolari come Padre Pio o Don Milani, mi hanno dato la popolarità. Quella vera.
Bella, anche se ti può divorare».