La Stampa, 19 luglio 2018
Compagni di omertà sui banchi di scuola. La lettera di un insegnante
Gentile Direttore, le scrivo a proposito dell’arresto dei componenti del clan Casamonica e di quanto affermato dal procuratore aggiunto Michele Pristipino riguardo la crescita della cultura dell’omertà nel quadrante sud-est della periferia di Roma. Ovviamente non sta a me decidere se tale cultura si sia diffusa solo in quella zona di Roma. Vorrei crederlo, sperarlo. Ma temo che non sia così. A tal proposito posso raccontare un aneddoto che reputo indicativo. Nella scuola dove insegno, appunto zona sud-est di Roma, lo scorso dicembre degli ignoti hanno spruzzato con una bomboletta dello spray al peperoncino. Dopo pochi minuti i ragazzi erano tutti giù nell’atrio: chi tossiva, chi aveva gli occhi lacrimanti, chi la gola irritata. Conclusione: lezioni interrotte.
Grossa reprimenda da parte degli insegnanti, ricerca dei colpevoli. La classe è stata individuata, gli autori no. Abbiamo pensato a un episodio passeggero. Quattro o cinque giorni dopo, invece, di nuovo stessa situazione, ma stavolta nell’altra palazzina. Qui le cose hanno preso una piega più grave: una ragazza è stata soccorsa con l’ambulanza. La Preside a questo punto tramite l’interfono ha minacciato di sospendere qualsiasi tipo di uscita esterna o viaggio d’istruzione se non venivano allo scoperto i colpevoli. Lascio immaginare l’esito. Prima di Natale collegio dei docenti e decisione di sospendere sia uscite sia viaggi d’istruzione. Nessuno si è fatto avanti, nessuno ha parlato, nessuno, soprattutto, ha denunciato. A nulla sono valsi gli appelli e le minacce. Nelle classi sospettate abbiamo letto il racconto di Erri De Luca, “Il pannello”, in cui si sottolinea la differenza tra omertà e solidarietà. Niente. Un muro. Se denunci, se parli, sei un infame, sei una spia. Una madre di due ragazze molto brave, molto studiose, protestando per la sospensione delle gite, e frequentanti una delle due classi sospettate, alla mia richiesta di convincere le figlie a parlare, a denunciare ha candidamente detto: «Professore, non pretenderà mica che le ragazze facciano la spia».
L’educazione civica dovrebbe ripartire da qui, lavorare con i ragazzi in queste e altre zone di Roma e d’Italia per sottolineare la differenza tra la spia e il cittadino che denuncia la violazione dei propri diritti (in questo caso lo svolgersi regolare delle lezioni prima e le uscite didattiche e i viaggi d’istruzione poi), tra chi segue i dettami della legge e il cosiddetto “infame”, termine della malavita per indicare che denuncia alla polizie e viola il muro di silenzio voluto dal codice malavitoso. Il fascino peraltro esercitato da fiction che fa assurgere a eroe il cattivo, hanno, sarà banale dirlo, contribuito al dilagare di tale mentalità per cui l’uomo retto è colui che si fa i fatti propri.
*Insegnante in una scuola di Roma