Libero, 18 luglio 2018
Le scarpe da donna col tacco prova dell’esistenza di Dio
È piuttosto curioso quanti uomini siano convinti che le donne comprino e indossino scarpe col tacco per sedurli. È una colossale balla. D’accordo, i tacchi fanno muovere i fianchi, ci obbligano a una camminata attenta, pancia in dentro, tette in fuori, tutto molto sexy; ma non c’è uomo al mondo che valga una sera di tacchi e di acciacchi. La soluzione al dilemma «perché le donne c’hanno la fissa per le scarpe» è più semplice. Siamo fatte di un corpo e di un paio di piedi. Il corpo, perdonate il candore, è una combinazione di merda: ci vediamo come un insieme di pezzi, viso, braccia, pancia, sedere, gambe, che vorremmo in un’armonia che non riusciamo a trovare mai. Così, anche se stanno là in fondo, a salvarci la vita restano i piedi. L’immagine riflessa nello specchio, infatti, rivela una vertiginosa quantità di difetti: sopracciglia spettinate, punti neri, ciglia corte, occhiaie, baffi, rughe, occhi gonfi, faccia gonfia, tutto gonfio. Sopra la faccia ci sono i capelli: ora, se è vero che verso i 25 anni una donna smette di aspettare il principe azzurro e si mette a cercare un parrucchiere affidabile, è anche vero che il parrucchiere non si sveglia con noi tutte le mattine, quindi i capelli ci fanno sempre orrore. Poi la tragedia, il corpo. Braccia e busto, culo e gambe, tutto sempre troppo grosso, poco tonico, quello è basso, questo è flaccido. Allora indossiamo un abito-scafandro, chiudiamo la zip e siamo pronte per uscire. I piedi, invece, sono liberi, possiamo vestirli con tutte le scarpe che vogliamo senza sentirci grasse, sbattute, brutte. I piedi non cambiano, non ingrassano, non hanno le occhiaie, non sono da depilare, al massimo sono un filo gonfi o dobbiamo prenotare la pedicure. Quando ci facciamo schifo con tutto, i piedi ci salvano la giornata. E, di conseguenza, le scarpe ci salvano la giornata. Possiamo sceglierle come fossimo in un negozio di caramelle senza zucchero: zeppe, décolleté, espadrillas, stivaletti, stivali, mule, mocassini, ballerine, tacco alto, medio, basso, a punta, a punta tonda, con cinturino, con le frange, di vernice, con le borchie, tinta unita, animalier, camouflage, floreali, a pois. Abbiamo bisogno di tirarci su? Tacchi alti, altissimi. Una mattina abbiamo l’impulso di invadere la Polonia? Sandali bassi o scarpe da ginnastica. Sì, collezioniamo scarpe e non ci bastano mai. Sull’Urban Dictionary americano (il dizionario che rincorre i neologismi inglesi) il termine che definisce la nostra mania è shoesaholic, che indica una persona «che possiede più di 60 paia di scarpe». E nel documentario God save my shoes, che indaga il legame tra donne e calzature, a sorpresa, l’attaccamento alle scarpe è spiegato con il bisogno di riempire un vuoto esistenziale, quasi religioso. La versione più pop la si trova su riviste… pop, ricche di test da ombrellone e di analisi sociologiche più leggere dell’aria: scegli scarpe di marca e costose? Sei ansiosa. Non le metti se non sono perfettamente pulite? Soffri di sindrome dell’abbandono. Ti piacciono gli stivaletti? Hai una personalità aggressiva. Quelle colorate sono per le frustrate, quelle alte sono segno di un carattere estremamente femminile, imprevedibile e volubile, le ballerine sono per le ingenue e i sandali per le disinibite. Ma anche la letteratura è vastissima. Wilhelm Stekel, sessuologo austriaco, parlò, alla fine degli anni ’20, di «culto dell’harem» riferendosi alle collezioni di scarpe delle signore: secondo lui inneschiamo gli stessi meccanismi che un pascià attua con le sue donne, e ogni giorno scegliamo il nostro paio preferito. Freud scriveva che le scarpe sono la piena esaltazione erotica femminile e il tacco a spillo, oltre a innalzare la donna, è percepito come forma di sottomissione maschile in grado di dare piacere. Lasciando il dubbio che più che delle donne, parlasse di un problema suo. E fece del feticismo una questione complicatissima: «È probabile che nessuno essere umano di sesso maschile sia stato risparmiato dallo spavento dell’evirazione derivante dalla vista del genitale femminile. Non siamo in grado di spiegare perché alcuni individui, in seguito e a causa di questa impressione, diventino omosessuali, altri se ne difendano creando un feticcio». Quando compriamo delle scarpe, non pensiamo alla praticità: di quelle che fanno timidi cenni dalla mensola del negozio, discrete e utili, con cui si può camminare per 12 ore e rimanere un fiore, ne avremo sì e no un paio. Invece non possiamo resistere alle torturatrici: percorriamo il negozio, ci rimiriamo allo specchio, e poi declamiamo: «Mi sembra che vadano proprio bene, e sono pure comode». Il dolore procurato dai tacchi alti sparisce. Diventiamo ascetiche, anestetizzate. Quindi, le conclusioni sono due: primo, quando indossiamo scarpe addormenta-dita, distruggi-pianta, nursery delle vesciche, non crediate che lo facciamo per gli uomini. Ci vestiamo, prima di tutto, per la donna riflessa nello specchio. Ed è evidente da quando gli stilisti hanno pensato di proporre tutone da lavoro indossate con tacchi spaziali. A dire: se proprio ti tocca uscire quando ti fai ribrezzo, copriti, ma cammina sempre a testa alta, schiena dritta e taglia le nuvole con il naso. Seconda conclusione: tutte le volte che indossiamo scarpe che hanno appeso dietro il segnale a triangolo di pericolo, il pensiero «perché accidenti ho messo proprio queste», anche quando ci sfiora, non produce nulla. Se nella vita toccare il fondo è vitale per lo sviluppo dell’esperienza formativa, non lo è nel mondo delle calzature femminili. Da ragazzine siamo perfino tornate a casa strascicando i piedi nudi nelle pozzanghere e le scarpe in mano, ma quel paio l’abbiamo conservato fino a oggi, anzi ne abbiamo altri uguali (non proprio “uguali”). Ragione e memoria, davanti a scarpiere e negozi di scarpe, corrono a rintanarsi; e se la memoria proprio non si leva di mezzo, la spintoniamo noi. E allunghiamo la mano su dei favolosi sandali di Ferragamo, tacco 11.