La Stampa, 18 luglio 2018
Addio a Bruno Martinazzi, scultore di forme minerali sovraccariche di umanità
Era il suo sorriso generoso e buono, ma di una bontà profonda e che bene conosceva il dolore e le insidie del mondo, a colpirti e conquistarti, a prima vista. Con quei colori infuocati d’azzurro delle pupille accese e vivide, e la capacità narrativa, piana, di rapirti, con i suoi racconti e le sue riflessioni pacate, ma vibranti. Forse non è giusto partire dall’uomo, parlando d’un artista così riservato e schivo, ma di grandissimo valore segreto, quale Bruno Martinazzi, scomparso lunedì a 95 anni. Ma davvero, in fondo, l’uomo era la sua scultura, e la sua scultura, pur possente, armata, piena di forza minerale e di rasserenata violenza interiore, era la sua umanità.
Ed era appunto umana, comunicante, di aulicità classica, greca, ma anche di profondo respiro religioso (una delle sedi privilegiate ove ambientò i suoi pugni di serpentina del Lago d’Orta era il Monastero di Bose, dove era di casa, accanto al priore Enzo Bianchi e a fra Lino). Nella Torino delle esplosioni meccanicistiche di Mastroianni, delle forme dinamiche di Mino Rosso, delle figure brancusiane di Giansone, lui aveva scelto una sua strada assai originale, che passava attraverso la strettoia regale e dorata dell’orificeria, che pur in miniatura aveva forza titanica.
Scappatoia che gli aveva permesso di fuggire dal mestiere, che pure aveva esercitato, di chimico. Dopo la pausa non indolore della Resistenza nella Alba di Fenoglio. Lui aveva una visione metafisica e petrosa delle sue forme astratte, poderose, che però ricordavano impudentemente le parcellizzate forme umane: dita, pugni, natiche, pupille, labbra. Era come se rifacesse la bocca di Mae West di Dalí, o certe forme elementari di Arte Povera, ma con una visione lontanissima edumanistica, filosofica. Come testimoniano anche i suoi sensibilissimi libri di aforismi.