La Stampa, 18 luglio 2018
Il codice infranto dalle donne
L’operazione dei carabinieri sui Casamonica di Porta Furba, a Roma, consegna alla magistratura due conferme. Innanzitutto che siamo di fronte ad una organizzazione di stampo mafioso, come ormai sembra acclarato. La seconda conferma riguarda il ruolo delle donne all’interno del clan: com’è già avvenuto per le mafie ben più consolidate, sembra essersi incrinato il principio, un tempo saldissimo, della subalternità femminile.
La «rivoluzione rosa» si è fatta strada anche tra gli anfratti antichi delle tradizioni rigidamente maschili e maschiliste delle organizzazioni criminali. Liliana Casamomica, una delle protagoniste di questa indagine, si muove – perfettamente a suo agio – sul terreno della «gestione imprenditoriale» del malaffare. È un capo a tutti gli effetti, tanto da permettersi iniziative non autorizzate da nessun maschio. Uno stile che, una volta, non sarebbe stato tollerato. Ma la presenza femminile serve, come dimostra la cronaca degli ultimi vent’anni. Le donne non sono «prese di mira» come i maschi, questi i commenti che si ascoltano nel corso delle intercettazioni. E in effetti qualche sottovalutazione delle potenzialità criminali delle signore, in passato, c’è stato. Basti pensare soltanto che fino agli Anni Ottanta il reato di associazione mafiosa non era applicato alle donne perché considerate «inadatte» a quel ruolo. Tutto questo mentre, per esempio, le donne del clan dei Graviano di Palermo muovevano ingenti somme attraverso Internet. Per fortuna oggi non c’è nessun magistrato che creda ancora nella inadeguatezza delle donne di mafia ed esiste – d’altra parte – un lungo elenco di «femmine mafiose» di ottimo livello. Due nomi per tutte: Rosetta Cutolo, sostituta dell’ergastolano «professore» di Napoli, e Ninetta Bagarella, moglie di Totò Riina, che è andata in latitanza col marito per un quarto di secolo.
Ma dentro le mafie, da qualche tempo, sembra farsi strada un’altra «realtà rosa»: quella delle femmine che non accettano più la vita spericolata dei maschi e provano a sganciarsi e a sottrarre i loro figli al destino scritto del carcere o della morte prematura. Qualcosa del genere si muove da tempo in Calabria, dove è in atto una vera e propria insubordinazione nei confronti di una cultura che ha sempre visto le donne come agnelli sacrificali di una vera e propria dittatura maschile. Fino a qualche tempo fa vigeva la regola che prevedeva persino la pena di morte per l’adulterio (ma solo femminile). La condanna era richiesta dal maschio «offeso» ed eseguita preferibilmente da un familiare, così, per dare sacralità alla sentenza. Oggi esistono centinaia di ragazze fuggite da quell’inferno, giovani madri, sorelle, rifugiate in luoghi protetti insieme coi bambini.
Il desiderio di salvare i figli è una novità importante. Prima le madri tendevano a proteggerli col silenzio, anche dopo aver subito lutti e dolore, finendo così per favorire gli aguzzini. Anche questa catena pare essersi rotta, merito soprattutto dell’attenzione dello Stato e del coraggio di tante giovani donne. Pure i Casamonica sembrano aver trovato la loro pentita. Anche se la «ribelle» potrebbe esser mossa più dal risentimento che dal desiderio di redenzione. È un segnale anche la reazione di una compagna ripudiata dal padrone Casamomica e forse mai accettata completamente. Il clan non ama gli «estranei» e persino una moglie proveniente da un ambiente diverso può essere liquidata con l’antico detto: «I figli sono sangue, ma la moglie è carne da contratto». Ma ai fini dell’inchiesta non conta il perché della collaborazione, l’importante è che siano vere e dimostrate le notizie che ha fornito agli investigatori. E c’è da sperare che il gesto della «rivoltosa» serva a cambiare anche la testa delle altre donne, quelle che hanno aggredito giornalisti e operatori accorsi a documentare l’operazione dei carabinieri.