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 2018  luglio 18 Mercoledì calendario

Ferocia e lussi pacchiani, la Las Vegas de noantri in mano agli ultimi boss

È una Las Vegas senza alberghi né casinò la Roma-sud dei Casamonica, da San Giovanni sino a Ostia, la città che “sente” il mare e frana verso Napoli e la sua camorra di ferocia e guapparia. Magliana, Trullo, Quadraro, Appio, Quarto Miglio, Tuscolano, Torrino, Spinaceto, Tor Marancia, Anagnina, La Rustica, Tor Bella Monaca, Don Bosco, Cinecittà, Borghesiana...: sono tanti gli staterelli criminali senza un centro urbano che hanno sostituito le vecchie periferie delle incisioni di Renzo Vespignani e dei suoi gasometri abbandonati, e quelle delle baracche dei ragazzi di vita di Pasolini. È un pulviscolo di edilizia selvaggia dove tutto avviene in auto e dove questa famiglia, sinti e mafiosa, conta centinaia di affiliati, parenti lontani e vicini, trovatelli e adottati, braccia come patrimonio, ex robivecchi ed ex sfasciacarrozze, ex giostrai ed ex allevatori, ex nomadi trasformati in malacarne, matrone che inseguono i giornalisti con le scope, esattori che estorcono e umiliano innanzitutto con la potenza dell’esibizione, a partire dai Rolex d’oro – ieri ne hanno sequestrati più di venti – che non sono solo gli stemmi nobiliari della malavita mafiosa, ma i simboli di tutta la volgarità romana, dal calcio al commercio, dal circolo Aniene alla coda della cometa. E infatti il big boss Peppe Casamonica, uscito di prigione dopo dieci anni e ora di nuovo in galera, se lo era subito rimesso al polso riprendendo il comando delle estorsioni e dello spaccio, dell’usura e dei commerci, non solo illegali, degli affitti e degli appalti, delle vendette e delle punizioni.
Dunque Casamonica è un nome d’onore e di rispetto che, come quello di Carminati, viene pronunziato per precauzione a bassa voce. «Sono come le cosche più potenti della mia terra» ha raccontato un pentito calabrese.
Solo che a Roma «spesso non hanno bisogno di sparare». E qui ci sono pure i denti d’oro, che nella Roma sinti impianta un certo Dragan, un pentolaio e allevatore alto due metri. E sono sempre sontuosi i funerali barocchi che gli italiani hanno scoperto quando morì il patriarca Vittorio e lo portarono in chiesa su una carrozza d’oro mentre l’elicottero spargeva petali di rose e la banda suonava il Padrino. Sempre, quando muore un capo, gettano fiori lungo la strada, e nelle bare ci mettono di tutto. Se poi il morto è un bambino ci mettono anche il Vicks Vaporub perché non si sa mai, si può raffreddare nel viaggio verso il paradiso.
E le armi sbucano da sotto la giacca mentre le auto sgommano dai supermercati alle rotonde, e corrono dai centri commerciali, dove i Casamonica saltano la cassa perché non pagano, agli spaghetti-junction dove la notte gareggiano i cavalli. Qui i soldi sono solo contanti, tutti in blocchetti da 5mila euro, come quelli sequestrati ieri, perché il pizzo non si paga col bonifico e il pusher non accetta carte di credito. E girano tutti con rottweiler, bulldog, dobermann, dogo argentini, pitbull, cani aggressivi con le mascelle allentate. Ma non c’è nulla delle bestie in queste immagini, solo la bestialità che c’è nei loro padroni, tatuati con reticolati, fili spinati e mitra. E sempre indossando tute da ginnastica, i mafiosi di Roma-sud bruciano tutti i semafori rossi ed esibiscono catene, scudisci e bastoni.Attenzione, però, prima che dei Casamonica questa è l’estetica dell’italiano ribaldo, è l’estremizzazione dei Fabrizio Corona, ma è anche una certa destra manesca, come quella di Ostia appunto, degli Spada e di Forza Nuova: teste rapate e testate sul naso come spirito del tempo.
Già la violenza caprona con cui Spada aggredì il giornalista Daniele Piervincenzi mostrò un afrore selvatico, arcaico e animalesco da mafia di suburra che a Palermo non si era mai visto se non all’Ucciardone. E adesso le intercettazioni confermano quella scenografia di botte e minacce: «Agli albanesi gli abbiamo rotto le ossa e li abbiamo mandati via». E ora sappiamo anche che a Roma l’usura al duecento e al trecento per cento si sconta cedendo il diritto alla casa, come nel film di Sorrentino “L’amico di famiglia” quando il cravattaro ti stringe il nodo al collo sinché non respiri più. I sequestri di ieri la dicono lunga sulle occupazioni delle case e sugli sgomberi al grido di “basta non vogliamo più i neri”. Ieri hanno sequestrato ville, una a Porta Furba dove viveva il boss, e poi palestre, un centro di bellezza al Testaccio e un ristorante dietro il Pantheon, un mondo di commerci che spiega l’arraffa arraffa nel centro di Roma, i tavolini selvaggi, il pessimo cibo che odora di topo fritto. E hanno sequestrato case popolari a Ciampino, a Pietralata, a Cinecittà, all’Infernetto. Tutte erano occupate abusivamente e tutte in nome del diritto alla casa. E tornano, come sempre nella mafia, i soprannomi che qui sono Ringo e Ciufalo, Dindella, Bìtalo e Balì... I ragazzi di vita “leggeri come stracci” erano Riccetto, Er caciotta, Lo Spudorato, Cagnazzo e Calabrina.
Non esiste un’altra città italiana dove la mafia ha cambiato tutto in così pochi decenni. Forse in India o in Africa. E fa impressione confrontare l’innocenza dei “brutti sporchi e cattivi” di Scola con questa nuova galassia urbana dove convivono il mondo feroce di Dogman raccontato da Garrone e le sontuose tenute principesche, dove capita che dietro un cavalcavia si nasconda un tempio etrusco, e dove la più antica sinagoga d’Italia si affaccia sul materiale di scarto della speculazione edilizia. Altro che Scarface.
I Casamonica sono originari di Casa Calenda, in Molise, un piccolo centro sinti, povero ma non mafioso. E a Pescara il quartiere Rancitelli, descritto nel romanzo di Nicola La Gioia, fu un centro sinti dello spaccio, mai mafioso però, e oggi abbastanza sotto controllo. A Roma invece i Casamonica sono fuori controllo perché troppi romani hanno creduto che nella città corrotta e ladrona, la violenza sui marciapiedi e l’invadenza dei commerci illegali, i cassonetti bruciati, il degrado dei trasporti e del decoro, i lavori pubblici incompiuti, le buche, l’invasione dei topi e dei gabbiani, la cultura come baraccone di incompetenze, la corruzione politica diventata sistema e, sullo sfondo, le esecuzioni per strada, non componessero il paesaggio urbano della mafia, delle mafie, ma solo di una criminalità puzzona. E invece eccoci qui, dominati a Roma-sud da una famiglia di sinti che non è mafiosa perché sinti ma perché romana.