Libero, 17 luglio 2018
Quando l’errore grammaticale diventa un vanto
Se un detto recita che Dio è nei dettagli, allora, di certo, il diavolo si annida negli errori, e nei refusi. Non per nulla nel Medioevo iniziò a circolare la credenza che esistesse un diavoletto, Titivillus, incaricato di raccogliere le lettere omesse dai chierici nella Liturgia delle Ore, e di riporle nel suo sacco. A questa figura è dedicato Titivillus. Il demone dei refusi, di Julio Ignacio González Montañes (Graphe.it edizioni, 64 p., 6 euro). L’autore, dottore di ricerca specializzato sulle arti plastiche e il teatro medievale spagnoli, ricostruisce la storia del demonietto incaricato di raccogliere non solo gli errori dei monaci, ma anche i pettegolezzi delle donne che, in Chiesa, invece di ascoltare le funzioni, chiacchierano e sparlano. L’idea d’un demone raccoglitore di errori inizia con i Sermones vulgares (1210-20circa) del francese Jacques de Vitry. In un manoscritto oxoniense del XV secolo sulla vita di San Brendano (MS Laud. Misc. 315, fol. 91) si narra poi che un monaco, vedendo un demone intento a scrivere, gli avesse domandato che cosa scrivesse, ottenendo come risposta: «Peccata tua». Vitry non fa il nome del diavoletto, che compare per la prima volta nel Tractatus de penitentia (1285) di Johannes Galensis. Talora, Titivillus è raffigurato con una pergamena che egli allunga con i denti, se gli errori sono proprio molti. Così, nei Giudizi Universali d’area balcanica, Titivillus è riconoscibile nel demone recante sulle spalle i rotoli di pergamena su cui sono scritti i peccati umani. In generale, si fisserà la tradizione per cui fragmina verborum, Tutivillus colligit horum (Titivillus raccoglie i frammenti di queste parole, scil. di quelle errate e incomplete). Nasce così la tradizione per cui Titivillus confonda gli scrivani, disseminando errori nei manoscritti: da qui a diventare «demone protettore» dei calligrafi, degli stampatori, e dei giornalisti, il passo è breve.
SVISTE DEMOCRATICHE
Ma, in fondo, chi è immune dalle sviste e da quegli errorucci indispondenti, certo, ma che ci rendono umani? Il refuso è democratico: prima o poi, tutti ne commettiamo uno, che sia un errore di digitazione o dovuto al correttore non disabilitato, o a una banale svista. Un esempio? Pensiamo al grande (e quasi centenario, classe 1919) Lawrence Ferlinghetti, che in Americus (2004) afferma: «Poesia è la verità che smaschera ogni bugia. È la luce in fondo al tunnel e il buio dentro il tunnel.. È il suono dell’allegria quando si piange. È i cavalli di Ulisse che piangono la sua morte. È un sassofono che canta la nascita del blues» (Americus, trad. di M. Bacigalupo, 2009, p. 45). Grandiosa questa catena d’immagini, no? Peccato che, facilmente, quelli cui Ferlinghetti allude saranno i cavalli di Achille, e non di Ulisse, gli Xanto e Balio citati in Il. XVI e XVII. Del resto, qualche svista apparente c’è anche in Omero, tanto che Orazio, nel I sec. a. C. nell’Ars poetica (v. 339) dice: «Anche il buon Omero, ogni tanto, sonnecchia», alludendo proprio alle contraddizioni già individuate dalla filologia alessandrina. Ma che ne sarebbe d’una nobile disciplina come la filologia classica senza gli errori? Per ricostruire lo stemma codicum, cioè l’albero genealogico dei manoscritti di un autore o di una data opera, infatti, è fondamentale riconoscere la tipologia degli errori, che fa permette di deurre la derivazione di un manoscritto da un altro. Va anche detto che gli autori antichi erano molto più soggetti di noi a refusi e imprecisioni perché citavano a memoria molto più di noi, anche per motivi pratici: il rotolo di papiro rispetto al codice, antenato dei nostri libri, era infatti poco agevole da maneggiare e consultare. Talora, l’errore nasce da un consapevole intervento dell’autore sul suo testo: Cicerone in Orator 29 aveva attribuito per errore alcuni versi di Aristofane a un altro commediografo, Eupoli, e subito chiese all’amico Attico, proprietario di una delle più attive botteghe romane di copisti, di rettificare l’errore, riuscendo a correggere la tradizione che ci è arrivata. Non fu però così fortunato quando nel De re publica (2, 8) desiderò alterare Phliuntii, come aveva chiamato per sbaglio gli abitanti di Fliunte, in Phliasii: infatti, il solo manoscritto superstite dell’opera reca ancora la lezione Phliuntii e la correzione richiesta da Cicerone è opera dagli editori moderni (per una storia dell’errore, cfr. L. D. Reynolds – N. G. Wilson, Copisti e filologi, Antenore 1987).
ECCESSO DI ZELO
Certi errori nascono da un eccesso di zelo: un noto accademico mi raccontò che la sua tesi di laurea fu oggetto d’un intervento sciagurato. La proprietaria della copisteria dove l’aveva fatta stampare, infatti, gli disse: «Tu non sai che errore c’era! Poverino: ogni volta che volevi scrivere GIorgia hai saltato la prima I. Ma io te le ho inserite tutte!». La tesi, per la cronaca, verteva sul Gorgia platonico... Ci sono anche refusi spassosi: la sottoscritta, recensendo un divertente romanzo di Andrea Vitali, anni fa, lo citò sempre con il titolo Olive compresse -riuscendo anche a darne una spiegazione! -, invece che come Olive comprese: tanto più che, avendo letto il libro, era chiaro a che cosa facessero riferimento le “olive”, visto che si narrava una gara di virilità sui generis fra quattro amici burloni. Quando Titivillus ci mette lo zampino, o meglio, la coda..