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 2018  luglio 17 Martedì calendario

Quando il disgelo Reagan-Gorbaciov iniziò con una battuta sugli alieni

«Cosa devo fare per vedere Disneyland? Suicidarmi?». Quel giorno di settembre del 1959 Nikita Krusciov era furioso. Davanti a Marilyn Monroe, Bob Hope e Frank Sinatra esterrefatti, la prima visita di un leader sovietico in America stava precipitando: ma non ci fu nulla da fare, per ragioni di sicurezza non lo fecero entrare negli studios della Mecca del cinema, dove lui, rozzo contadino ucraino, sognava di conoscere Topolino. Finì per litigare con il capo della 20th Century Fox sui meriti del comunismo e del capitalismo. Eppure, due giorni dopo, il suo summit con il presidente Eisenhower andò bene: si piacquero, suscitando speranze di un accordo su Berlino, poi risultato illusorio.
La storia dei vertici fra le due superpotenze è costellata di episodi simili. In genere, quando le aspettative sono basse, i colloqui producono sorprendentemente qualche progresso, e viceversa.
Nel 1985 a Ginevra, primo summit fra Gorbaciov e Reagan, che aveva trascorso il suo primo mandato presidenziale a chiamare l’Urss “l’impero del male” e a minacciare di distruggerla con le “guerre stellari”, il presidente e il leader sovietico sedettero a un certo punto a quattr’occhi (più i quattro degli interpreti) davanti a un caminetto: e l’atmosfera migliorò.«Bè, ci aiutereste se gli alieni invadessero la terra?», chiese Reagan a bruciapelo. «Certo», rispose Gorbaciov. Scoppiarono a ridere e il ghiaccio si sciolse.
Tuttavia l’anno seguente, a Reykiavic, Gorbaciov mise sul tavolo una carta formidabile: dimezzare gli arsenali strategici in cambio della rinuncia Usa al progetto di scudo spaziale. Come in una partita a poker, Reagan rilanciò, proponendo di eliminarli del tutto e di limitare lo scudo spaziale a test di laboratorio, impegnandosi a condividere i risultati dei test. «Ma se non condividete con noi neanche le ricerche sulle perforazioni petrolifere!», sbottò il presidente sovietico. E disse di no. «Lei sta rifiutando un’opportunità storica per una parola», lo ammonì Ronnie. Finì con una gelida stretta di mano davanti alla limousine del capo del Cremlino: la mimica rivelava rammarico, disappunto, rabbia.
I primi summit in assoluto fra americani e russi erano andati bene: a Teheran, Yalta e infine Potsdam, Roosevelt e Stalin (più Churchill), quindi Truman e Stalin, concordarono come sconfiggere il nazismo e dividersi il mondo in aree di influenza.
«Posso trattare con Stalin», disse Truman ai suoi consiglieri al vertice del luglio 1945 nella Germania occupata, «è onesto ma furbo come un diavolo». Sull’onestà la Casa Bianca si sarebbe presto ricreduta. Passarono dieci anni prima che di summit ce ne fossero altri, tra “Ike” Eisenhower e Krusciov, intervallati dal famoso “kitchen debate” all’American National Exhibition di Mosca con Richard Nixon, allora vicepresidente degli Stati Uniti, dentro una classica cucina Usa piena di elettrodomestici che nelle case russe nemmeno si sognavano.
«Avete per caso creato anche una macchina che mette il cibo in bocca alla gente?», ironizzò Krusciov, assicurando che «presto avremo le vostre stesse tecnologie e vi diremo bye-bye». Ma Nixon deviò la polemica: «Se competiamo sulle tecnologie, invece che sulle armi, è un passo avanti». Nikita apparve soddisfatto.
I vertici più rilassati e amichevoli furono quelli che seguirono il crollo dell’Urss. Chi scrive incontrò Bill Clinton che scendeva le scale del Cremlino, dopo un summit con Boris Eltsin, a suo agio come a casa propria. È andata bene Mister President? «Tutto okay», rispose salendo sulla limousine corazzata, il pollice alzato in segno di vittoria. Ma i vertici non sono partite di calcio: il risultato ideale è un pareggio.Come si è capito in seguito.