La Stampa, 16 luglio 2018
«Mi tuffo da grandi altezze per sentirmi libero»
Saliamo sulla piattaforma e ci riscaldiamo, nell’attesa che parta la musica, il pezzo che abbiamo scelto. Serve per caricarci e anche un po’ per lo show. Quando ritorna il silenzio, chiudiamo gli occhi e ripassiamo mentalmente il tuffo. Entriamo in modalità concentrazione. Ci passiamo ancora una volta sulla pelle lo «shammy», il piccolo asciugamano-coperta di Linus, che gettiamo nel vuoto quando suona la campanella: è il segnale, è il nostro turno. Allora ci spostiamo sull’orlo e guardiamo giù: l’acqua è 27 metri - un palazzo di 8 piani - più sotto.
A tuffarsi è naturalmente solo Alessandro De Rose, 26 anni, l’unico italiano delle Red Bull Cliff Diving World Series, il circuito mondiale dei tuffi dalle grandi altezze. Calabrese d’origine ma globetrotter per sport e amore (Londra, Trieste che è la città della fidanzata ed ex allenatrice Nicole, Strasburgo, Roma), ha cominciato con i tuffi tradizionali a Cosenza, ma a 14 anni ha dovuto interrompere per la morte del padre. Tre anni dopo si tuffava da 20 metri, per guadagnare qualcosa, allo Zoomarine di Torvajanica e qui è stato notato da Red Bull.
Ci siamo sporti nel vuoto con Alessandro a Bilbao dal ponte La Salve, ma poteva essere dalle rocce di Sao Miguel nelle Azzorre (sabato scorso la gara: 13°; è 9° dopo tre tappe), o ancora nella baia di Polignano a Mare, in Puglia, dove il 23 settembre si chiuderà la stagione 2018. Una disciplina estrema, che nasce nel 18° secolo alle Hawaii. Era il “lele kawa”, lo spiccare il volo dalla sacra roccia di Kaunolu entrando in acqua senza sollevare spruzzi: una manifestazione di abilità, coraggio,potere.
De Rose, lei si tuffa per manifestare potere?
«Ma va! Lo faccio perché mi dà un senso di libertà che niente altro riesce a farmi provare».
Che cosa sente quando sale sulla piattaforma?
«Provo a non pensare a nulla e cerco di avere una totale connessione tra mente e corpo. Cerco di sentire ogni muscolo e nel contempo di isolarmi dal mondo. Entro in me stesso, quasi in meditazione, finchè non arrivo sull’orlo della piattaforma, guardo giù e salto».
E quando è in aria?
«Mi sento libero e mi godo il volo».
Sente anche il pubblico?
«Lo sento quando sono sulla piattaforma. A Polignano è l’urlo di 50 mila spettatori, che senti arrivare dal basso e che ti carica. Poi, quando salto, non sento più nulla».
Un volo da 27 metri in 3 secondi a 85 km l’ora: a che si pensa mentre si vola?
«Quando si scende si hanno frammenti di secondi per capire come eventualmente correggere il tuffo ed entrare al meglio in acqua. Si pensa a quanto si sta facendo, a come lo si deve fare, a cosa fare se si ha eventualmente sbagliato l’inizio e a come continuare. Tutto con gli occhi aperti, nel mio caso col punto di riferimento dell’acqua».
C’è spazio per la paura?
«Sempre. Difficilmente mi trovo in posizioni in cui mi faccio molto male, ma l’alea esiste. Il problema è soprattutto quando si finisce con il petto o il volto esposti. Mi è successo in Indonesia, da 29 metri: ho toccato l’acqua e sono svenuto».
Si guadagna bene?
«Dipende dai risultati, ogni piazzamento prevede un gettone. Se sei titolare nelle World Series si vive dignitosamente. Prima, facevo pure l’allenatore e il cameriere».
Che c’è nel suo futuro?
«Spero di continuare a far bene e di restare nella top 5 delle World Series. E, magari, di vincerle».
Extra circuito?
«I Mondiali della Federnuoto. E la speranza che la disciplina diventi olimpica. Si parla di Parigi 2024».
In Italia c’è solo lei.
«Sì, ma spero di poter fare da traino per costruire una squadra azzurra».