La Stampa, 16 luglio 2018
Matthew Modine: «Oggi anche Kubrick sceglierebbe di dirigere serie tivù»
Un divo di Hollywood che ha lavorato con i più grandi, che oggi è una star di serie venerate come Stranger Things e che, senza fare una piega, risponde a un sms sul cellulare per stabilire insieme l’orario dell’intervista. Ospite d’onore del «Taormina FilmFest» dove venerdì terrà una masterclass e dove spera di trovare un clima meno torrido di quello romano («Today it is very hot»), Matthew Modine ha conservato intatto lo stesso tono semplice e diretto di quando, nell’83, vinse la Coppa Volpi alla Mostra di Venezia per Streamers di Robert Altman: «Credo che questo mestiere, come quello del giornalismo, possa avere una funzione importante. Lo dico con profonda umiltà, ma noi abbiamo la possibilità di mostrare la verità, di dire come stanno le cose, di risvegliare le coscienze».
Dal grande al piccolo schermo. Ha recitato con i maestri e adesso è impegnato a tempo pieno con le serie. Come si trova?
«Dieci anni fa le serie americane erano molto diverse da quelle di oggi. Duravano di meno ed erano infarcite di spot pubblicitari. Adesso fare cose come Stranger Things è esattamente come girare un grande, lungo, film. Non vedo differenze. Anzi, sono convinto che se ci fossero ancora registi come Altman e Kubrick non avrebbero nessun problema a dirigere serie».
In questi giorni è a Roma, impegnato, appunto, in una nuova serie Netflix. Di che cosa si tratta?
«Il titolo provvisorio è Sanctuary. Sarò qui per girare fino alla fine dell’anno, interpreto un medico che lavora in una specie di ospedale dove si studiano e si curano individui con personalità disturbate, nella speranza di recuperarli. Un tema interessante, che ha molti appigli con la realtà contemporanea».
Che cosa l’appassiona nella vita, oltre la recitazione?
«Sono ambientalista e penso che la battaglia per l’ambiente sia la più grande sfida del momento. Dobbiamo impegnarci per il bene delle nuove generazioni, spendere le nostre energie per costruire un futuro migliore. Bisogna convincere Trump di quanto tutto questo sia importante».
Quali sono stati, nella sua carriera, gli incontri più significativi?
«Quello con Altman è stato fondamentale, abbiamo avuto l’opportunità di parlare di tante cose, ero agli inizi, mi ha spiegato che cosa significasse fare questo mestiere. E poi è stato incredibile lavorare con Stanley Kubrick, ne ho ricavato un’esperienza profonda, mi ha insegnato a pensare in un modo diverso, a ricordare che dietro le apparenze c’è sempre qualcos’altro, che non è tutto come sembra. Il lavoro per Full Metal Jacket è durato quasi due anni. È stato bello anche con Jonathan Demme, con cui ho fatto la mia prima commedia, con Alan Parker con cui ho girato Birdy e con Christopher Nolan».
E con il cinema italiano che rapporti ha?
«Sono stato entusiasta di partecipare al film di Stefano Sollima Soldado. Amo l’Italia e gli italiani. Quando si parla del vostro cinema si fanno sempre i nomi di De Sica, Fellini, Antonioni e non si parla mai dei giovani talenti. Ritengo che oggi ci sia invece una sorta di Rinascimento cinematografico italiano, un po’ come c’è stato in Usa ai tempi di Coppola e Lucas. Sarei felice di poterne fare parte».
Ha girato anche con Carlo Vanzina e, pochi giorni fa, è andato al suo funerale. Come era andata tra voi?
«Mi aveva chiamato per il film La partita, abbiamo trascorso insieme un periodo bellissimo. Nei suoi confronti i critici erano molto severi e un sacco di gente, all’epoca, mi ripeteva “ma come, hai lavorato con Kubrick e Altman, perché adesso reciti con i Vanzina”? Avevo le mie buone ragioni».
Cioè?
«Ognuno deve avere l’opportunità di realizzare i propri progetti, Carlo ha fatto le commedie, che sono molto più difficili dei drammi e che hanno fatto divertire tanto il pubblico. Volevo salutarlo per l’ultima volta e dare un bacio a suo fratello Enrico».
A Taormina terrà una masterclass. Che cosa insegnerà della sua professione?
«Quando ho visto per la prima volta il Teatro Antico, costruito tantissimo tempo fa con la fatica di tanti per offrire al pubblico un luogo dove poter godere di spettacoli, ho pensato di essere, in qualche modo, parte di quel processo. Con l’arte si può dire alla gente di essere migliore. Ovunque. In America, come in Italia, dove vedo che oggi si vive con grande tensione il problema dei migranti».
Che impressione le fanno questi fatti di cronaca?
«Penso al nostro Dna. Basta studiarlo per sapere che siamo tutti uguali, fratelli e sorelle, e che è assurdo fare differenze».