il Fatto Quotidiano, 16 luglio 2018
Biografia di Carlo Pisacane
Duecento anni fa, il 22 agosto del 1818, nasceva a Napoli Carlo Pisacane, una delle personalità più notevoli, e romantiche, del nostro Risorgimento democratico. Figlio di Gennaro Pisacane, duca di San Giovanni, e di Nicoletta Basile de Luna, e destinato alla carriera militare nell’esercito borbonico, il rampollo di quell’antica casata divenne – per rammentare quanto scrisse lo storico Franco Della Peruta – un personaggio di primo piano nella “storia della democrazia risorgimentale”. Con lui, infatti, “il lento e faticoso processo di elaborazione di un programma di rivoluzione popolare e nazionale, alternativo da ‘sinistra’ a quello mazziniano ed orientato in modo conseguente verso una soluzione socialista del problema italiano, raggiunge il suo punto di maturazione più alto”.
Il nobiluomo napoletano, che aveva abbandonato Giuseppe Mazzini per approdare al socialismo di stampo anarchico, morì a Sanza, in provincia di Salerno, il 2 luglio del 1857. Cadde nel corso della spedizione, partita da Genova con il piroscafo “Cagliari”, che aveva promosso con un gruppo di patrioti per sollevare le popolazioni del Mezzogiorno in nome dell’unità italiana e della rivoluzione sociale. Pisacane e i suoi volontari, i 300 “giovani e forti” della famosa poesia La spigolatrice di Sapri di Luigi Mercantini, vennero massacrati dai contadini e dai gendarmi borbonici. Ma le circostanze della morte di Pisacane, ancora oggi, non sono chiare. Quasi tutti quelli che si sono occupati di lui, da Nello Rosselli a Della Peruta, hanno affermato che il rivoluzionario, per non finire in mano alla plebaglia assassina, decise di suicidarsi e si sparò. Altri studiosi, invece, sostengono che fu ammazzato; uno dei suoi assassini, poi, sarebbe stato a sua volta eliminato alcuni anni dopo.
Lo storico ed editore campano Giuseppe Galzerano ha affrontato in modo approfondito la figura di Pisacane e, soprattutto, la sua morte. Nell’introduzione agli scritti del patriota napoletano (pubblicati nel volume La Rivoluzione, edito dallo stesso Galzerano), documenta che una delle guardie locali, un certo Sabino Laveglia, il 3 luglio, il giorno dopo l’eccidio, «con le mani ancora macchiate di sangue innocente, si presenta dal giudice Leoncavallo e, autoelogiandosi, tra l’altro ascrive a sè il merito dell’uccisione di Carlo Pisacane, affermando: “Al primo colpo del dichiarante quegli della banda rivoltosa che faceva da capo cadde”». Secondo Gaetano Enter, però, «un gendarme congedato di Napoli, residente a Sanza, dove faceva l’ebanista, nella deposizione resa al giudice Leoncavallo il 7 luglio, il merito dell’uccisione di Pisacane spetterebbe a lui».
L’Enter, continua Galzerano, «riferì anche che durante il conflitto “aveva sentito chiamarlo in nome dai suoi compagni, Pisacane fatti più in qua”. In realtà a Sanza non ci fu combattimento. Le “tre ore” di duro scontro furono una vanteria di Sabino Laveglia per accrescere i suoi meriti omicidi. Si trattò solo di una vile aggressione contro inermi e sconosciuti cittadini. Che non ci fu nessun combattimento è provato anche dal fatto, inconfutabile, che nessuno dei sanzesi risultò ferito». Il re delle Due Sicilie, Ferdinando II, «compensò lautamente gli abitanti di Sanza: furono distribuite più di cento medaglie e Sabino Laveglia fu nominato cavaliere, mentre al comune andarono duemila ducati, utilizzati per costruire la strada per Buonabitacolo. Stando alle deposizioni sembra che sia da escludere la massiccia partecipazione della popolazione di Sanza all’eccidio. Lo scontro sarebbe avvenuto nella prima mattinata e il farmacista Filippo Greco Quintana, dopo aver fatto sfondare la porta della chiesa, fece suonare le campane a stormo per avvertire la popolazione del pericolo. Nei loro interrogatori né le guardie urbane, né i prigionieri fecero riferimento all’intervento della popolazione. Solo il sottocapo Sabino Laveglia dichiarò che era intervenuta anche la popolazione, probabilmente per procurare dei premi ai compaesani». Il fallimento nel sangue del moto di Pisacane e dei suoi compagni, tra i quali c’era anche il futuro ministro Giovanni Nicotera, che si salvò e fu imprigionato, venne accolto con soddisfazione dai governi italiani.
Scrive Galzerano che all’indomani «del fallimento della spedizione, Cavour manifestò la solidarietà del governo piemontese al governo napoletano, perseguitò la compagna di Pisacane e accusò Mazzini. Nella famosa lettera Al Conte Cavour, Mazzini stigmatizzò con roventi espressioni lo sfratto della “vedova” di Pisacane, contro cui nessuna voce si era levata alla Camera, sfratto dovuto alla scoperta della corrispondenza con Mazzini. Cavour non fu il solo».
«Il 9 luglio 1857 – apprendiamo ancora da Galzerano – L’Indipendente di Torino scrive: “Nella storia non vi ha tiranno che abbia versato tanto sangue come Giuseppe Mazzini; questo sciagurato è circondato da una immensa quantità di capi mozzi di giovani da lui portati al patibolo”. In un dispaccio del 10 luglio il ministro inglese Hudson lo accusava di essere “malvagio, orgoglioso e senza scrupoli” e “come al solito, procurava di tenersi lontano da ogni pericolo”. Anche Carlo Marx, con poche parole, ne condannava l’operato: “Il putsch di Mazzini assolutamente nel vecchio stile ufficiale. Avesse almeno lasciato fuori Genova!”». Altrettanto certo, secondo Galzerano, è che nel 1860 il patriota Cristofaro Ferrara «di San Biase, una frazione del comune di Ceraso, vendicò l’uccisione di Pisacane. Partì da Vallo della Lucania con altri liberali per recarsi a Sapri con l’intenzione di giustiziare i parenti del prete Peluso, che nel 1848 aveva fatto uccidere Costabile Carducci», un patriota ucciso dai borbonici.
«Fu dissuaso da Garibaldi – narra lo studioso campano – e allora si recò a Sanza, dove giunse il 6 settembre e, costituito un tribunale, processò Sabino Laveglia, il fratello Domenico, il farmacista Filippo Greco Quintana e Giuseppe Citera, che vennero condannati a morte e fucilati il 7 nelle prigioni di Sanza. Enter era deceduto per morte naturale nel gennaio del 1860. “Giustizia” era fatta».