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 2018  luglio 15 Domenica calendario

Il nuovo patto che serve all’Europa

Le liti fra capitali su confini dimenticati, l’intolleranza crescente verso stranieri e minoranze, le navi cariche di migranti a zonzo nel Mediterraneo in cerca di un porto dove attraccare, i funzionari di Bruxelles che fanno sfoggio dei propri idiomi senza cercarne più uno comune e l’onda dello scontento del ceto medio che attraversa impetuosa le Alpi, il Reno, la Manica e il Danubio: sono i tasselli di un mosaico assai eloquente. A 61 anni dalla sigla dei Trattati di Roma l’Unione Europea rischia di implodere per l’effetto convergente di tre debolezze: l’incapacità dell’euro di garantire prosperità diffusa, l’incapacità dei confini di filtrare i migranti e l’incapacità delle istituzioni comuni di essere trasparenti. Si tratta di altrettante conseguenze di un successo perché l’Unione Europea è stata una protagonista di rilievo della globalizzazione dell’economia seguita al crollo del Muro di Berlino nel 1989 ma tale processo si è trasformato in un boomerang che ha drasticamente cambiato la situazione all’interno e all’esterno dello spazio comune europeo. 
All’interno ha causato diseguaglianze economiche fra aree più o meno capaci di sostenere la sfida con i mercati emergenti, all’esterno ha spinto moltitudini di diseredati africani ed asiatici a scommettere il proprio destino nell’emigrazione verso l’Ue erroneamente percepita come un’isola di illimitata prosperità.
Davanti a questo duplice processo i leader europei delle ultime tre decadi hanno tardato a comprendere ed agire. Non hanno capito che il ceto medio si stava impoverendo ed hanno sottovalutato l’entità delle immigrazioni dalla sponda Sud del Mediterraneo. Milioni di cittadini europei si sono così sentiti progressivamente abbandonati da un’Unione che avevano contribuito a creare con il loro voto e nella quale si erano riconosciuti fino a condividere tanto il concetto di cittadinanza europea quanto i benefici dell’integrazione, dal lavoro all’istruzione fino ai trasporti ed alla ricerca scientifica. 
Paradossalmente, ci troviamo dunque di fronte ad una crisi frutto di una grande delusione: molti cittadini europei, proprio perché si sentono tali, si aspettavano soluzioni efficaci da Bruxelles su diseguaglianze e migrazioni ma non sono arrivate e ciò ha generato la rivolta dei ceti medi che, da Budapest a Manchester, da Roma a Dresda, da Marsiglia a Lubiana, giova a partiti, leader e movimenti «sovranisti» ovvero determinati a trovare soluzioni nazionali ai problemi che l’Unione Europea non riesce ad affrontare. A giovare ai «sovranisti» è anche il meccanismo decisionale dell’Unione Europea le cui caratteristiche – frutto di oltre mezzo secolo di difficili trattative fra Stati nazionali – restano opache, perché ciò che più manca è un legame di rappresentanza diretta fra governati e governanti. Insomma, l’Unione Europea rischia di implodere perché ha rallentato, se non interrotto, il cammino dell’integrazione comune indicato dai padri fondatori: non ha trovato ricette credibili su diseguaglianze e migrazioni, e non ha reso le sue istituzioni più rappresentative ovvero democratiche. La responsabilità è dei leader degli Stati nazionali dell’Ue perché dopo aver deciso l’allargamento ad Est e dopo aver rafforzato i poteri del Consiglio Europeo di fatto hanno interrotto il percorso dell’integrazione, che porta inevitabilmente ad un’Unione federale. Poiché la forza del processo europeo è sempre stata il fatto di essere in movimento, appena i progressi – seppur minimi – si sono arrestati è scattato il dirompente processo opposto, che tende alla decomposizione. Per rimettere la costruzione europea sui binari serve ora molto più di qualche esoterico compromesso fra sherpa sui tavoli di Bruxelles: l’Unione deve riconquistare la fiducia dei propri cittadini e non ha molto tempo a disposizione perché la Storia europea ci insegna quanto il nazionalismo sa essere rapido nell’imporsi su ogni rivale.
È una responsabilità che cade sugli attuali leader dei 28 Paesi dell’Ue, nessuno escluso. Forti o deboli, veterani o matricole, pragmatici o faziosi, socialisti, popolari o sovranisti poco importa: ci sono loro al timone e spetta dunque a loro riconoscere la gravità del momento, siglando in fretta un patto su diseguaglianze e migranti per rilanciare l’Unione. Oppure assumersi la responsabilità del ritorno delle piccole patrie. Per l’Europa nata dalle distruzioni della Seconda Guerra Mondiale e uscita rafforzata dalla Guerra Fredda significa trovarsi davanti alla sfida strategica del XXI secolo: diventarne protagonista o esserne vittima.