il Fatto Quotidiano, 15 luglio 2018
«Il mio ventennio d’oro con Jerry, Diego e il Dogui». Intervista a Mauro Di Francesco
Ray-ban neri, camicia azzurra, bermuda e scarpe da barca: Mauro Di Francesco è vestito come il perfetto prototipo degli anni Ottanta. Lui è uno spicchio degli Ottanta. La voce, l’intercalare – taaac – dissipazione fisica ed economica, leggerezza e goliardia sono una cifra tatuata nei suoi occhi azzurri, di chi dice: “Mi sono tanto divertito. Non sempre, ma alla fine…”. A sei anni è stato l’enfant prodige di Carosello, poi Strehler, sua maestà il Derby di Milano, decine e decine di film da botteghino d’oro, quindi il momento di bassa, “mentre ora ho deciso di smettere. Ma solo all’ultimo le dirò il perché”.
Allora, dall’inizio…
Mio padre era capo elettricista in Rai, mio zio direttore di produzione della General film: proprio loro realizzavano i Caroselli. Un giorno avevano bisogno di un bambino…
Si sentiva speciale?
No, solo diverso perché gli altri andavano a divertirsi a scuola, a giocare a pallone il pomeriggio, mentre io lavoravo un giorno sì e uno no.
Così spesso?
In quinta elementare sono riuscito a racimolare 36 presenze in un anno. Vagavo di set in set. A volte non ne potevo più, magari mi lamentavo con mio padre, e lui ogni volta rispondeva: ‘Da maggiorenne andrai al Credito Italiano di via Parini (Milano), ti presenti, e improvvisamente troverai tutte le risposte a dubbi e preoccupazioni’.
Pragmatico.
Appena maggiorenne ho varcato la porta di via Parini, solo che, dopo la presentazione, il direttore di banca ha scavalcato il bancone armato di bastone in mano, io bianco ho iniziato a correre, e lui dietro. Il conto era in rosso.
Com’è possibile?
Papà aveva sputtanato ogni lira. Mi ha rovinato.
Voi senza alcun sospetto?
Era mio padre. Anzi, è mio padre, anche se morto.
Almeno vivevate nel lusso?
Ma va! Un bilocale al Niguarda, in quattro dentro a 35 metri quadri.
Il quarto…
Mio fratello Dario, genio della medicina, premiato in Europa per le sue ricerche nel campo della ricerca cardiovascolare: al tempo lui dormiva sul divano e io in un letto ricavato dentro un mobile jolly.
Allora quanto guadagnava?
Nel 1957 prendevo 8 mila lire a Carosello, per l’epoca una bella cifra.
Ma cosa ha combinato?
La giustificazione? Aver perso tutto in Borsa, ma secondo noi se li è giocati ai cavalli.
Va bene, ma lei ha lavorato molto dopo la maggiore età.
Ci sono ricascato: con papà ho aperto una società per gestire i miei guadagni, firmava tutto a mio nome. Altra batosta clamorosa. Azzerato di nuovo il conto. Il problema è che lo amavo moltissimo, non sono mai stato in grado di non fidarmi, una parola, il suo sguardo ed ero già sedotto.
Da bambino sul set.
Alla fine mi divertivo, percepivo il fascino di personaggi come Nino Manfredi o Virna Lisi; una volta Mario Carotenuto, alla fine del primo Carosello, mi chiama nella sua stanza d’albergo insieme a mia mamma, mi guarda e allunga una banconota da diecimila lire, quelle enormi: ‘Queste sono per il piccolo’. E a me: ‘Divertiti un po’’.
Quindi non si sentiva come in Bellissima.
Questo no, però vivevo in più realtà e neanche parallele: dormivo in 35 metri quadri, mentre la mattina avevo il taxi sempre pronto per portarmi sul set, il tassista era diventato un amico; alternavo una condizione popolare a lussi fuori portata.
Diventato grande subito…
Di statura non tanto, per il resto sì. Ed è per questo che mi hanno cambiato il fegato.
Ha subito un trapianto per cirrosi.
A 15 anni interpretavo il Principe di Galles nel Riccardo III di Shakespeare, per la regia di Giorgio Strehler. I protagonisti erano Corrado Pani, Valentina Cortese, Glauco Onorato, Lino Capolicchio. Quando finiva lo spettacolo la compagnia andava a cena fuori e quasi sempre alla pizzeria ‘Il dollaro’, dove uno sconosciuto Al Bano era cameriere.
Aspirante cantante…
Questo non lo so, però era simpatico.
Quindi, a cena?
Cercavo sempre di stare accanto a Corrado, allora fidanzato con Mina, insieme erano i miei miti. E a tavola la compagnia non andava proprio avanti ad acqua o aranciata…
Botte di vino.
Cavoli, je davano! E io per sentirmi un po’ ometto, li imitavo, mi sembrava così di entrare nei necessari riti di quel mondo, pensavo fosse necessario. Guardavo e imparavo, in particolare da Corrado.
Poi da adulto.
Nel mio caso non è un problema di quantità, i miei epatologi-trapiantisti hanno detto che ero proprio predisposto.
Strehler.
Lo percepivo come Nembo Kid. Una presenza alta, non spiegabile, personalità maestosa, e mi trattava benissimo, ogni tanto urlava alla compagnia: ‘Imparate da questo ragazzo, teste di cazzo’.
A 15 anni aveva amici fuori dallo spettacolo?
Pochi e il massimo della sfida era rubare i motorini; li seguivo per non tirarmela, ma non capivo.
Se l’è goduta?
All’infinito.
I veri anni Ottanta.
Non posso dire tutta la verità.
Avviciniamoci.
Non vorrei offendere qualcuno.
Con garbo.
Ho trombato tantissimo, ma tantissimo da non averne un’idea.
Le più belle.
No, proprio tutte.
Decennio d’oro.
Un ventennio, dal 1978 al 1998, vissuto a ritmi forsennati.
Tipo?
In quegli anni uscivamo gratis, i locali aprivano solo per noi, cene, vino, dopo-cena, tutto incluso. L’unica volta che abbiamo pagato è stata una fregatura assurda: un milione di lire per dei toast.
Alla faccia.
Anno 1990, lago di Garda. Ero con Diego Abatantuono, Umberto Smaila, Jerry (Calà) e Franco Oppini, quindi ristorante, poi un locale. Finisce la serata alle 3 di notte. Accanto al nostro albergo c’era un night aperto. Attenzione: ac-can-to. Jerry non molla mai, entra. In mezz’ora abbiamo speso quel milione e senza combinare nulla.
Un affare.
Una volta usciti, saliamo in macchina, Jerry al volante. Si parte, mi addormento. Dopo tre ore mi sveglio: ‘Oh, ma dove siamo?’. Anche gli altri aprono gli occhi. E Jerry: ‘Scusate, ho sbagliato, per tornare in hotel ho fatto il giro dell’intero lago’.
Da Strehler al Derby. Come?
Un giorno conosco Umberto Simonetta, per due anni mi coinvolge in alcuni spettacoli, fino a quando decide di portare me e sua moglie, Livia Cerini, al Derby; il proprietario del locale era lo zio di Diego, con lo stesso Diego addetto alle luci per gli spettacoli dei Gatti.
Secondo Antonio Ricci quello di Abatantuono non era un impegno gravoso…
Effettivamente era responsabile di un solo bottone: per accendere e spegnere l’occhio di bue sul palco.
Il Derby…
Dopo pochi giorni di prove, viene da me il proprietario: ‘Voglio solo te. Liberati degli altri. Scrivi un monologo in una settimana, e debutti’. Accetto invaso dai sensi di colpa, ma intorno a me avevo da Cochi e Renato a Toffolo fino ad Aznavour.
Dei veri big.
Sì, però sono stato un po’ vigliacchetto.
E poi?
Dopo dieci giorni salgo sul palco.
Applausi.
Una tragedia. Interpretavo un bambino di nove anni con atteggiamenti da adulto fuori di testa: in cartella dei giornaletti porno, vino, un etto di cocaina, una pistola. Io vestito con grembiulino e fiocco.
E non ha funzionato?
La prima sera becco slavine di fischi, scendo dal palco in lacrime. Poi piano piano ho sistemato il pezzo ed è cresciuto fino a ottenere nel 1980 il premio Rizzoli per la satira.
Ha lavorato con Tognazzi e Bramieri.
Ugo è il mio padrino.
Così amico di famiglia?
No, in quel momento Tognazzi era impegnato in compagnia con Walter Chiari e Lauretta Masiero; mio padre responsabile di palco, mamma la sarta. Quando sono nato i miei hanno chiesto alla Masiero e a Ugo di farmi da padrini al battesimo.
Poi vi siete frequentati?
L’ho ritrovato decenni dopo e da quel momento ho passato quasi tutti i weekend ospite nella sua villa a Velletri, con Vittorio Gassman spesso geloso per le tante persone che andavano a trovare Ugo, mentre da lui quasi nessuno.
Anche lei vittima della celebre cucina di Tognazzi?
Una volta a me e Diego ha propinato del fegato crudo di un grosso pesce: ‘A confronto il caviale fa cagare’. Sarà… passano cinque minuti e mi chiudo in bagno. Distrutto.
Ha dichiarato: “Molte delle mie battute sono poi diventate il successo di altri”. Anche per “libidine”?
Quella era di tutti, forse i primi sono stati Renato Pozzetto e Guido Nicheli.
Nicheli detto “Il Dogui”…
Negli anni 80 ero socio di un locale a Milano. Arrivava con la sua Mazda cabrio, il caschetto in testa di pelle, lanciava all’indiano le chiavi dell’auto, gesto accompagnato dalla frase ‘parcheggia schiavo, e attento, se vedo un gibollo la colpa è tua’; poi prendeva una fiaschetta di whisky dal bagagliaio, entrava, il barman gli preparava un bicchierone di ghiaccio, versava i liquore e passava lì tutta la serata senza spendere una lira, a colpi di taaaaac e libidine.
È uno dei grandi caratteristi.
Un fenomeno, una simpatia unica, portava sullo schermo se stesso, e da anni ripeteva quello che poi ha fatto incidere sulla sua lapide: ‘Ricordate, sempre see you later’.
Droga.
Ne ho vista tanta.
(Si toglie gli occhiali)
Tanta.
Mai una pera, qualche canna, la cocaina l’ho provata una sola volta e poi ho lasciato perdere: sono rimasto sveglio tre giorni, e in quel periodo dormivo da mia nonna.
Però ne ha vista…
Situazioni assurde, tavoli pieni, vassoi d’argento stracolmi. A volte sembrava di vedere un film in stile Scarface.
Jannacci…
Genio assoluto, una sera mi ha cacciato.
Cos’ha combinato?
Ero nel suo spettacolo, e qualche volta, dietro il sipario, tiravo giù i pantaloni, mostravo il culo. Per ridere. Fino a quando un pirla ha svelato la bravata e lui mi ha sospeso.
Lei disperato.
In realtà felice: da poco fidanzato con Laura Belli, siamo stati sempre insieme.
Il suo primo regista è Carlo Vanzina.
Con lui ho iniziato grazie a I Fichissimi, Diego e Jerry come protagonisti; poi mi chiamò per Sapore di mare, probabilmente per darmi la parte poi finita a Jerry.
Perché il rifiuto?
Mi convinse Diego per poi girare con lui Attila: ‘Tranquillo, spaccheremo’. Andò malissimo. Sono stato un cretino.
Da Strehler a big del botteghino. E poi?
In parte per il caratteraccio: litigavo con tutti, mentre grazie a mia moglie sono migliorato. E poi già a 12 anni sapevo perfettamente quanto costavano i programmi.
E allora?
Ho imparato da subito a quantificare i costi delle trasmissioni e degli spettacoli, e questo a molti addetti ai lavori non piace.
Prezzi gonfiati.
Magari sparavano 400, quando in realtà la cifra era 80. E tutto è peggiorato da quando Paolo Berlusconi è stato il mio testimone di nozze: temevano gli facessi la spia.
Lei, oggi.
Dopo il trapianto ho dei brevissimi vuoti di memoria e sento qualche piccolo problema sul palco, per fortuna mi salva l’esperienza: mica mi fermo, plano sulle amnesie, creo e via così.
E quindi?
Lascio, non mi va più…
Sicuro?
Vabbè mica del tutto, se mi chiama Sorrentino o Garrone, o Tornatore…
Virzì, Guadagnino…
Vanno benissimo, per loro ci sono. Sempre.
(Perché se a sei anni sali per la prima volta su un palco, alla fine non puoi più scendere quelle scalette).