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Ripercorrere le tracce di un padre con il desiderio di cancellarle. Non è solo un prenderne il posto o, come usa dire, ucciderlo simbolicamente. No. Nella testa di Federico Sanguineti — uomo schivo, bizzarro, a tratti geniale — si agita una sorta di scena primaria che forse solo Kafka nella Lettera al padreriuscì a ricreare nella drammaticità di un legame inestricabile e doloroso. Federico, figlio del poeta, scrittore, critico militante Edoardo Sanguineti, vive fuori Salerno, insegna all’Università ed è considerato uno dei migliori dantisti in circolazione. Sua un’edizione critica, poco letta ma altresì apprezzata nell’ambiente. L’ossessione Dante, cui ha dedicato tutto il suo impegno, torna ora sotto forma di un commento ad alcuni canti, I-XVII del Paradiso (edizioni il melangolo). È un’edizione che si fonda su di un manoscritto retrodatato, il più vicino — fino a oggi — alla Commedia di Dante. Opera di alta filologia, verrebbe da dire. Guardo Federico che calca sulla testa una strana tuba ottocentesca, modello americano. Non ha niente del dantista. Ma evidentemente le apparenze ingannano: «Lo sono da sempre, o almeno da quando ancora piccolo mi arrampicavo sul tavolo di lavoro di mio padre e vedevo squadernate le edizioni critiche, le varianti, i commenti, i contribuiti più diversi».
Le piace questo mondo dantesco?
«Lo vivo con grande divertimento. L’Italia è piena di dantisti. Alla fitta schiera di professori si accompagnano farmacisti, notai, attori, dottori in pensione, fini dicitori. È un continuo citare e declamare. Gente, soprattutto di provincia, dall’Edipo forte che trova in Dante un padre superbo e complicato».
E il suo Edipo dove si colloca?
«In un punto da cui poterne cogliere gli effetti. Insieme a Dante, lessi a dieci anni tutto Freud».
Precoce.
«In una maniera preoccupante. Giovanissimo passai a Marx, in prima media lessi tutto il teatro di Goldoni e tutte le opere di Majakovskij. Ero permanentemente asserragliato nella biblioteca di mio padre».
I rapporti tra voi come furono?
«Improntati a una chiarezza estrema che ha agevolato le scelte o perlomeno non le ha impedite».
Cosa intende per chiarezza estrema?
«Non sono mai stato trattato come un bambino. Papà riteneva che l’infanzia e la famiglia fossero invenzioni romantico-borghesi. Quando ero piccolo parlava con me di politica o di letteratura come ne avrebbe discusso con un compagno di partito o un collega di università. C’è un episodio che non se se raccontare».
Provi.
«Sono stati trovati dei suoi Diari in cui annotava con un asterisco tutte le volte che faceva l’amore con la mamma. Non lo turbava minimamente dirmi: guarda, ho messo un asterisco!».
Cos’era, una lezione di eros?
«Non lo so, del resto anche Dante, nel canto XXV del Purgatorio, argomentando sulla generazione dell’anima, fa fare a Stazio una lezione di sesso. Voglio dire non è poi così scandaloso parlare di sesso».
Lei legge Dante anche come gesto di ribellione verso suo padre?
«Il mio interesse per Dante fu suscitato dalla mia insegnante di prima media. Tutto quello che so, il modo di studiare e apprendere, l’ho imparato da lei, non da mio padre».
Perché si commuove?
«Perché è un ricordo bellissimo».
Ne ha altri?
«Quando me ne andai da casa a vent’anni. Mi sentii per la prima volta libero. In quel periodo mio padre prese a scrivermi. Ma non mi chiedeva come stavo, o cosa facevo. Parlava di sé. Se avevo letto l’ultimo suo libro o l’ultimo articolo. Capitava che gli dicessi con franchezza cosa ne pensassi e che talvolta non condividevo e lui si arrabbiava».
Non amava le critiche?
«Una sua frase ricorrente era: qui in casa vige la dittatura del proletariato e io sono il proletariato!»
Scherzava.
«Da persona complicata si divertiva. Ho conosciuto diversi individui, con difficoltà edipiche, attratti da lui».
Anche lei sembra abbastanza complicato.
«Le racconto una storiella. Un grande scienziato tiene conferenze in tutto il mondo. Articoli su di lui, interviste alla televisione. A un certo punto comincia a stancarsi di questa vita e un giorno si confida col suo autista: non ce la faccio più, gli dice, a ripetere sempre la stessa conferenza. L’autista gli risponde che sono anni che lo segue e lo ascolta e che se vuole può sostituirlo benissimo. Si scambiano i vestiti e i ruoli. L’autista tiene una lezione che entusiasma il pubblico. Il capo dipartimento, felice per avere ospitato un professore di fama internazionale, gli chiede se può spiegare come sia giunto a questa importante scoperta. Il falso professore quasi si scusa per una richiesta così banale. Ringrazia e poi dice: “Mi avete accolto come meglio non si poteva, quanto alla richiesta vi devo confidare un certo imbarazzo, la domanda che mi fate ha una tale semplicità che meriterebbe la risposta dal mio autista!».
Lei è l’autista o il professore?
«Forse sono stato entrambi in tempi e modi diversi. Forse continuo a fare il professore pur sentendomi un autista».
Il suo rapporto con l’università come è stato, com’è?
«Non avevo molta voglia di frequentare l’università. Mi laureai con qualche attrito. Allora la passione era rivolta soprattutto al teatro. Un mio punto di riferimento fu Carlo Cecchi. Mi diceva: sei l’ombra di un’ombra. Sentivo che in quella piccola affermazione si nascondeva una grande verità. Svelava la mia vera natura: impalpabile fin dentro le sue radici».
Poi di strada ne ha fatta fino a diventare ordinario.
«È stato un percorso complicato. Quando vinsi il concorso accaddero due cose surreali».
Quali?
«La prima è che qualcuno insinuò che avessi vinto il concorso grazie a mio padre. In realtà attraverso me volevano colpire lui che allora si presentava come sindaco di Genova».
L’altra cosa?
«Quando giunsi a casa con la notizia della mia affermazione mia madre fu molto contenta. Era lei a ripetermi non ti preoccupare Federico l’università è talmente popolata di cretini che uno in più non potrà certo peggiorarla. Allora pensavo che fosse molto offensiva nei miei riguardi. Oggi ho il sospetto che avesse ragione».
Si sente un cretino?
«No, ma l’ambiente rigurgita di imbecilli».
Suo padre come commentò la sua affermazione?
« Lui, di solito così loquace, non disse nulla. Credo che non gli abbia fatto piacere».
Perché? Dopotutto era suo figlio.
«Proprio per questo. Se avesse potuto, avrebbe fatto come Rousseau che mise i figli all’orfanotrofio. A un certo punto pensai davvero di essere un orfano e nell’immaginarlo ero convinto che quello fosse il solo modo di andare incontro ai desideri di mio padre».
Intende dire che non ha vissuto quella fantasia come un potenziale conflitto verso suo padre?
«Non ho mai cercato il conflitto. Alla fine, posso dire che ci siamo ignorati. Un rapporto senza sentimentalismi e per questo accettabile. Non ho mai sentito quell’odore pungente di stalla che di solito si avverte nei rapporti familiari».
L’impressione è che il vostro conflitto non sia mai venuto alla luce del sole.
«Se c’era e se fosse latente non lo so. Sono stato per due anni in terapia intensiva. Non sarei dovuto sopravvivere. Una devastante leucemia. Mi avevano attaccato a una ventina di flebo. Sembravo un albero di Natale con le luci spente. Ero lì, quando mia madre mi telefonò per dirmi che papà era morto. Pensai che stavo morendo anch’io e che lui non lo avrebbe mai saputo. Non era giusto. Ancora una volta era involontariamente riuscito a togliermi la scena».
Non è teatro, è vita.
«Lei crede che ci sia qualche differenza? Lei crede che il Gruppo 63, di cui mio padre fu uno dei protagonisti, non fu una ininterrotta sequenza di gesti teatrali? La vita intellettuale dopotutto si riduceva a questo».
Chi ha conosciuto del Gruppo?
«Un po’ tutti, ma in particolare Enrico Filippini. Era spesso a casa da noi. Grandi discorsi e quantità smodate di whiskey e io che ascoltavo la rivoluzione del canone letterario, come fosse un bollettino di guerra: i morti, i feriti, i vincitori e i vinti».
Tra i nemici dichiarati il Gruppo 63 aveva messo Pasolini.
«La sorprenderò. Quando Pasolini morì mio padre pianse. Non l’avrebbe fatto per nessuno. Ma quella volta pianse».
Effettivamente è riuscito a sorprendermi.
«Lo fui anch’io. Ma nel profondo c’era qualcosa che li avvicinava. Erano due intellettuali completamente fuori dalle norme. Pasolini rappresentava, per dirla con un verso di Montale, ciò che non siamo ciò che non vogliamo. Avevano battagliato a lungo e quando morì, in quella maniera così ostinatamente violenta, a mio padre venne a mancare di colpo un punto di riferimento polemico».
Come se improvvisamente, nell’enormità di quell’episodio, venisse meno anche un pezzo della vita di suo padre?
«I “ nemici”, come i genitori, non li scegliamo. Sono loro che riempiono e danno senso, a volte, alla nostra vita. Anche nel contrasto più acceso e violento sono una parte intima di noi. Per questo nel momento in cui soccombono, spariscono, ci lasciano un vuoto».
A proposito di intimità come fu il rapporto tra sua madre Luciana e suo padre?
«Mia madre è morta da pochi mesi e mi accorgo che la cosa che mi è restata impressa di lei è soprattutto la voce. Una voce dolente e sprezzante. Con qualcosa di definitivo».
Anche la voce di suo padre la ricordo molto particolare.
«Una voce recitante, a tratti ipnotica, che sapeva gestire con rara maestria. Quelle due voci che a volte sentivo discutere escludevano tutto il resto. Loro due sono esistiti l’uno per l’altra con una tale intensità da impedire che qualcosa ne turbasse l’equilibrio. Perfino la tragedia di mio fratello, finito in una clinica psichiatrica, è stata certo non rimossa ma sospesa, come quando ci illudiamo di fermare il tempo. Mentre in realtà il tempo fa il suo mestiere e noi decadiamo, al punto che neppure Thomas Mann avrebbe saputo raccontare quella decadenza familiare».
Dove, secondo lei, ha avuto inizio questa decadenza?
«Non lo so, francamente. Potrei dirle che mia nonna materna era ricca e poi divenne povera. Quando quel lato andò a rotoli, altri rami della famiglia si impossessarono degli averi. Io indossavo, adolescente, le scarpe dismesse di un cugino. Ricordo delle scarpe oscene, di cuoio e di pelo, di non so quale animale. E in quel ramo in perdita c’era la zia Elena che fece conoscere mia madre a mio padre».
Fu un grande amore.
«Fu qualcosa di totalizzante, in un mondo abitato solo da loro due. Non c’era spazio per i miei due fratelli e per mia sorella. Ero ancora bambino quando assistetti sul terrazzo di casa al falò delle loro lettere. Distrussero tutto il carteggio prematrimoniale».
Ha capito perché?
«Sinceramente no. Sospetto fossero lettere erotiche. Credo non fosse tanto il contenuto a preoccuparli ma piuttosto il bisogno di non contaminare quella storia con nessuna interferenza esterna».
In tutto questo che posto occupa Dante?
«Per essere io l’ombra di un’ombra avverto una forte sintonia con quel grande migrante che è stato Dante Alighieri».
Ha sublimato la rivalità con suo padre sul territorio vasto e ambizioso della Commedia?
«Abbiamo dato letture opposte della Commedia. In un convegno a Salerno portai una relazione “Edoardo Sanguineti dantista”, dove presi pubblicamente le distanze da lui. Fu considerato uno scandalo. Era il 1989».
Trent’anni dopo continua ancora la guerra di trincea?
«I protagonisti sono quasi tutti morti. Come vede oggi mi dedico al Paradiso!».
Intende dire che tutte le contraddizioni, i dissidi, le paure si sono sciolti?
«Intendo dire che non si può sempre stare con l’elmetto in testa. Come vede ho questa specie di tuba o cilindro che calco con disinvoltura. A volte la gente mi osserva come fossi un animale bizzarro o una figura stravagante. Mi piace, mi dà sicurezza. Per uno che ha dedicato la propria vita all’arte sottile della filologia, infliggendosi una forma di autodisciplina estrema, è un modo per ritrovare il lato esilarante dell’umano».