la Repubblica, 15 luglio 2018
Il giorno della cicuta
Cosa succede quando una città e un filosofo entrano in rotta di collisione? Quando questa città si chiama Atene e il pensatore porta il nome di Socrate lo si può comprendere fino a un certo punto, e proprio per questo indagare nel mistero di quel processo datato 399 a.C è un’impresa filologica (e filosofica) da far tremare i polsi.Di Socrate nulla resta di scritto, tutto ciò che lo riguarda va ricondotto ai testi di altri, dalle Apologie di Platone alle Nuvole di Aristofane; per scoprire magari che tra gli sfottò di quest’ultimo e la venerazione dell’autore del Simposio esistono link capaci di illuminarci su aspetti finora trascurati di una vicenda che non smette di formulare ai posteri le sue molte domande. La prima, che poi è la domanda principe di ogni filosofia, è: perché? Perché il filosofo viene processato a settant’anni per le idee che professava da decenni? E perché durante il processo la sua condotta sembra guidata dal desiderio di ricevere la condanna più severa, piuttosto che dalla necessità di restare in vita?A queste domande cerca di dare una risposta Mauro Bonazzi con Processo a Socrate,un saggio capace di portare il lettore nel clima culturale della democrazia ateniese (e dei suoi nemici) e di guardare a quella clamorosa tenzone cercando di comprendere le ragioni di entrambe le parti in conflitto. Non un esercizio di equidistanza, per carità, ma senz’altro un metodo che restituisce al giorno della cicuta il suo contesto complesso e a tratti inestricabile, dalla politica alla religione e ritorno. Socrate alla sbarra per ragioni politiche, allora? Sì e no, dipende cosa si intende per politica. Per Bonazzi, che ci offre un quadro esaustivo delle tensioni che attraversano la vita pubblica ateniese nel V secolo a.C, dalla crisi del dopo Pericle alla dolorosa parentesi dei Trenta tiranni, Socrate poteva essere percepito come vicino agli oligarchi nemici della democrazia. Ma si sbaglierebbe a fare di questo “sentimento” diffuso la causa diretta dell’imputazione per “empietà e corruzione dei giovani” e della successiva condanna. Meglio dipanare allora il filo dal lato della filosofia e della fede, in un mondo del resto connotato dalla profonda interrelazione tra politica e, appunto, religione. È qui che il ragionamento di Bonazzi, attingendo alle fonti più diverse, incrocia il legame tanto ambiguo quanto inevitabile con i sofisti, le regole del sistema giudiziario nella pòlis, il sistema di riti e credenze a sostegno di quel mondo sociale.Soprattutto, entra nel merito di una tensione tutta intellettuale – ed emintemente filosofica – non tra nuovi e vecchi dèi, ma tra una vecchia e nuova concezione del divino. E non è finita. Perché questa tensione è il frutto di un metodo, cioè la rimessa in discussione di ciò che è stabilito da secoli a garanzia della stabilità della città e della sua vita civile. Quel metodo che chi sa di non sapere usa per smontare il falso, l’illogico, il contraddittorio, senza però offrire modelli alternativi, perché il suo intento è insegnare a pensare mettendo l’uomo davanti a sé stesso.Un intento che forse è la spiegazione più plausibile della sibillina frase pronunciata dal filosofo prima di morire: siamo debitori di un gallo ad Asclepio,quasi a dire che la sfida del pensiero è la migliore medicina per guarire il male nell’uomo e nella società. Così come la sola spiegazione plausibile dell’autodifesa “suicida” di Socrate davanti ai suoi accusatori, quando secondo Bonazzi la cicuta non era affatto scontata, risiede nella logica della coerenza ma anche nel desiderio di fissare le ragioni e i torti nella storia a venire. Perché a volte basta un processo per stabilire le coordinate di un conflitto che costantemente si ripresenterà nella storia umana. Quello tra ordine sociale e libertà intellettuale, che esplode quando il pensiero critico sfida l’esistente, senza che Intelligenza arretri davanti a Forza, costi quel che costi.