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 2018  luglio 15 Domenica calendario

Intervista alla pianista Maria João Pires

Pomeriggio. Caldo soffocante. Maria João Pires, magra, fragile, minuta, arriva al Teatro Bibiena di Mantova vestita semplicemente, zaino in spalla, come un’ex hippie a un concerto di Joan Baez. Teatro vuoto, è venuta per provare una parte del programma della serata, Appassionata e Patetica di Beethoven, un momento sublime del festival “Trame Sonore” che per cinque giorni trasforma la città d’arte in un immenso palcoscenico per musiche da camera. Lo spartito resta chiuso, appoggia le dita sulla tastiera, affronta un passaggio, lo ripete e ripete e ripete, indugia su un grumo di note, un quarto d’ora o forse più, ne cerca una, una sola. Forward e rewind. Poi all’improvviso la centra, la musica prende forma, l’artista si abbandona, la testa all’indietro, gli occhi chiusi, il corpo si allontana ondeggiando dallo strumento. Un momento di estasi.
Poco dopo nel camerino l’artista portoghese che da qualche tempo vive in Brasile, 74 anni il 23 luglio, è di nuovo down to earth. Ha cambiato vita da quando ha deciso di mollare la routine dei concerti e delle incisioni e di esibirsi solo in eventi speciali come questo. I giovani artisti che le fanno visita nella fattoria dove abita, dando per scontato il suo strabiliante virtuosismo, raccontano del “buon pane fatto in casa dalla Pires”. «Fare del buon pane e suonare bene è un po’ la stessa cosa», spiega lei con l’umiltà del genio, «dipende da una serie di variabili, la temperatura del forno, il tempo di lievitazione, la luna. Bisogna vivere il presente, accettare quel che viene dal forno». Avrebbe potuto continuare, concedersi a caro prezzo solo a istituzioni prestigiose, alla Martha Argerich per intenderci, invece ha preferito mollare, lasciando ai fan la consolazione dei molti album incisi e ora racchiusi nei preziosi cofanetti Erato o Deutsche Grammophon (zeppi di Bach, Beethoven, Chopin, Mozart, Schubert e Brahms). «È un momento di grande cambiamento», sospira. « Ho fatto concerti per tutta la vita, e adesso mi sono fermata. Non è un ritiro malinconico, ma un momento felice e fortemente desiderato». Ha messo in pratica quel che va dicendo da sempre: «Avrei potuto studiare di più, sacrificarmi di più per avere una carriera più luminosa, ma il fatto è che io la carriera non l’ho mai voluta».
Eppure ha cominciato a suonare il pianoforte a tre anni, i bambini prodigio si bruciano in fretta o diventano “workaholic”.
«Io ricordo solo il rapimento che avevo di fronte alla musica, e quello è sempre rimasto lo stesso. Suonavo e piangevo. Ma già allora il palcoscenico non era un posto piacevole. Nella nostra cultura la performance è il momento in cui devi metterti alla prova, dimostrare chi sei e quello che sai fare, cercare di superare te stesso… e questo comporta molto stress».
In gioventù la popolarità è piacevole, lusinghiera, esaltante persino. Lei invece sembra averla limitata in ogni fase della carriera.
«Il successo è il peggior nemico dell’artista e degli esseri umani in genere, è qualcosa che ti fa sentire diverso dagli altri, e questo genera un senso di solitudine e d’infelicità. L’ho sempre vissuto con un insopportabile senso di ansia e di paura».
Sono ragionamenti che un artista fa nella maturità, deve aver avuto una famiglia con solidi principi per riuscire a elaborare questi sentimenti in tenera età.
«Molto solida. Mio padre lavorava in Cina, morì che io non ero ancora nata, mia madre restò da sola con noi figli, ma insieme ai miei nonni ci inculcò dei valori etici e morali che non avremmo mai dimenticato. Eravamo una famiglia all’antica che spesso si riuniva per suonare e cantare».
All’epoca Lisbona ribolliva di fado, era la musica dei quartieri e delle taverne, una tentazione per una musicista in erba.
«In casa mia si ascoltava principalmente musica classica, ma certamente conoscevamo anche le canzoni popolari, che ancora amo. Ero più intrigata dal jazz, una musica proibita e rara negli anni del regime».

«Se devo citarne solo uno, Dinu Lipatti. Quando avevo quattro anni, mi portarono all’ultimo concerto della violinista francese Ginette Neveu (1919- 1949, ndr), sarebbe morta poche ore dopo in un incidente aereo alle Azzorre, nello stesso volo per New York in cui perse la vita anche il pugile Marcel Cerdan, che all’epoca era l’uomo di Edith Piaf. La sua musica e la sua morte tragica ebbero un impatto tremendo su di me; non ho mai dimenticato quel concerto, mai».
Quanti sacrifici e rinunce ha dovuto affrontare per diventare una delle concertiste più riverite al mondo?
«Non parlerei di sacrifici ma di sforzi. Ho lavorato sodo per uno scopo: la ricerca del mio mondo spirituale; la musica è il solo mezzo che ho per entrare in contatto con me stessa, qualcosa che va oltre il pubblico, il palcoscenico, la standing ovation; la musica è il confine tra il materiale e il soprannaturale, il linguaggio che mi aiuta a decifrare l’inconosciuto».
Ha lavorato con grandi maestri, chi sono quelli che hanno lasciato un segno nella sua arte?
«Abbado ha avuto una grande influenza su di me perché per un lungo periodo abbiamo collaborato assiduamente, da lui ho imparato moltissimo, il rispetto per lo spartito anzitutto. Era una relazione molto professionale, si chiacchierava moltissimo di musica, durante le prove e fuori, ma sul palcoscenico mi parlava attraverso gli occhi. Anche con Bernard Haitink, Harding, Chailly e soprattutto Iván Fischer ho lavorato benissimo».
Ha dedicato molto del suo tempo alle scuole di musica, spesso delusa dalle istituzioni che poi hanno tagliato i fondi.
«L’istruzione è l’unica risorsa che il genere umano ha per salvarsi. Ho sempre pensato che sia indispensabile investire nelle scuole, l’ho sentito come un dovere. Viviamo in un mondo sempre più materiale in cui i valori traballano, le tradizioni sono trascurate, la storia dimenticata, le arti relegate a una élite o strumentalizzate a fini commerciali. Dobbiamo aprire gli occhi e renderci conto che questo ci condurrà al disastro. Investire sulle scuole e sui bambini vuol dire lavorare per un mondo popolato da cittadini consapevoli».
Era diverso negli anni Settanta e Ottanta?
«Sì, la gente aveva degli ideali, esisteva la solidarietà, che oggi è considerata cosa stupida e idiota. Viviamo in un’epoca egoista e arrogante».
È questa una delle ragioni per cui ha lasciato l’Europa e si è trasferita in Brasile?
«Ormai tutto il mondo è paese, ma io volevo staccare, isolarmi, l’ho fatto per la mia salute mentale e fisica. Avevo bisogno di costruire qualcosa, una nuova scuola, e lì ci sono riuscita. Lavoro con i più piccoli, mi sono inserita in un progetto che aiuta i bambini svantaggiati. Per adesso insegno a cantare in coro, è importantissimo che abbiano di nuovo la capacità di ascoltare e ascoltarsi; il canto li aiuta a superare i traumi. A Salvador vive anche una mia buona amica, Maria Bethânia, la cantante con cui ho anche inciso tempo fa una canzone (
Modinha, 2005, ndr), la mia unica sortita nella musica leggera».
Maria Bethânia è seguace del candomblé, lei pratica qualche religione?
«Mio nonno e mio padre erano buddhisti, filosoficamente lo sono anch’io, le religioni organizzate mi spaventano».
Cosa consiglia ai ragazzi che iniziano un percorso in musica, sempre più in salita per la classica?
«Classica o pop, il percorso è difficile, perché in entrambi i casi non è più la musica che conta ma il business. I giovani sono motivati fin da piccoli, allettati dai facili guadagni, non sanno ancora né suonare né cantare e già pensano di vendersi a un manager e a una casa discografica. L’equivoco è tutto qui, il fallimento dietro l’angolo. Dobbiamo insegnare ai bambini a lavorare per la loro felicità prima che per il profitto. E ai giovani artisti, insegnare a trovare la libertà all’interno dei propri limiti. È un percorso spirituale, non materiale».