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 2018  luglio 15 Domenica calendario

Un’orchestra per Vinicio Capossela

«È l’amore per la maraviglia». Il linguaggio di Vinicio Capossela ha un gusto che sa di classico e rétro. Come La Cupa, suo quartiere generale e studio di registrazione in zona stazione Centrale a Milano nascosto dietro un’insegna vintage e colmo di pezzi di modernariato. Come la sua vita pubblica che tiene ben lontana dai social network come suggerisce quel Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social di Jaron Lanier che si rigira fra le mani. La «maraviglia» che lo tiene impegnato per l’estate è un nuovo progetto che ha battezzato Orcæstra, un tour con un’orchestra. «Mi ha sempre affascinato, è il pranzo di gala che ti offre l’occasione per far indossare il vestito buono alle canzoni».
Orcæstra non è né greco antico né latino...
«È una parola composta. Immagino l’orchestra come un animale smisurato e mitologico. Non una balena, che ha qualcosa di materno e, per quanto produca spavento, può accogliere. Ma un’orca, che è ferina, vorace, selvatica. Fa a brandelli il passato e lo risputa. Così l’orcæstra è un congegno mnemonico che addenta il futuro risputando brani del passato».
Sarà in scena in alcune date con la Filarmonica Arturo Toscanini e in altre con l’Orchestra del Massimo di Palermo: l’ha definito antieconomico...
«Suonare in cinquanta quello che è stato scritto con un solo strumento... È un progetto che rimandavo da tempo. La mia ambizione è sempre stata suonare al teatro di Epidauro e l’orchestra in fondo è un teatro che ti circonda e ti fa eco. Una mantinades cretese dice “Voglio andare nei posti dove c’è eco per dire ti amo e avere risposta”. Con l’orchestra dici ti amo e ti rispondono in cinquanta. C’è anche un valore pedagogico: l’orchestra insegna, anzi obbliga, ad ascoltare gli altri».
Cosa ha scoperto dei suoi brani mettendogli il vestito buono?
«L’orchestra offre la piena possibilità di sviluppare gli arrangiamenti e amplifica il lato epico delle canzoni. Mette a nudo la forma, la struttura. Se questa è solida, come le fondamenta di una casa, ci puoi mettere sopra dei pesi».
Il «Sunday Times» di lei ha detto: «Canta come Tom Waits e scrive come Ovidio». Le fa piacere il paragone?
«Quello con Ovidio è più inedito e mi ha divertito. Credo molto nella mitologia. Non tanto quella condivisa dei libri di scuola, ma quella personale che ognuno di noi ha. L’Odissea di Omero in fondo è la canzone più antica del mondo, ma ognuno vive la propria. Di questi tempi chiunque provi ad attraversare il Mediterraneo è un nuovo Ulisse, quello dantesco però, quello che va oltre il ritorno. È un tema attuale e universale».
Porti chiusi, navi e migranti. Che ne pensa?
«Il Mediterraneo è stato trasformato in un bacino di morti e di pesca del consenso a basso costo. In un Paese in cui la scuola è al disastro e la precarizzazione del lavoro è evidente, è facile concentrarsi su altro e su basse pulsioni».
Il prossimo album?
«Saranno cronache dal post-medioevo. Una sorta di bestiario. La peste di questi tempi ci obbliga a trovare rifugio in una lettura della realtà non oggettiva ma come manifestazione di qualcosa altro. E questo offre spazio al simbolismo e all’animale».
A fine agosto animerà il paesino di Calitri con lo Sponzfest. Il tema di quest’anno?
«Il salvaggio. Sarà tutto giocato sulla doppia cifra di quello che è da salvare e del selvaggio, nel senso di non addomesticato».
Lei è addomesticato?
«Ogni tanto mi aggatto, termine siciliano, sul sofà. Mi piace però tenere un rapporto con la parte non addomesticata e imparare dall’animale, coltivare la curiosità».
La musica è «aggattata»?
«La possibilità di accesso non è mai stata così ampia e allo stesso tempo la scelta, almeno nell’uso di massa, è ridotta e appiattita in termini di linguaggio». 
Ha vinto l’usa e getta?
«Al di là di like e fruibilità immediata, nell’uomo è innato il desiderio di sentire una storia raccontata. Ci sarà sempre bisogno di una Canzone di Marinella».