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 2018  luglio 15 Domenica calendario

Julian Barnes e la spazzola di Flaubert

Julian Barnes è stato altri Julian Barnes. Un giovane studioso di lingue e filosofia, un raffinato romanziere inglese che usava anche pseudonimi, un marito che ha perso l’amatissima moglie e si è ricostruito. Ora Julian Barnes è Julian Barnes: uno dei grandi scrittori d’Europa, difficile da stanare, detentore di una memoria che in ogni libro riscrive sé stessa.
Lo incontro in un resort nelle Langhe, Barnes è stato ospite del Collisioni Festival ed è titubante nel rilasciare interviste. È seduto su una poltrona, legge un libro in bozze, il panama sulle ginocchia. Quando si alza capisco che è un uomo imponente – almeno un metro e novanta – e che i suoi modi eleganti, quasi sfuggenti, incarnano la prosa con cui ha pubblicato venticinque opere: un linguaggio naturale, sempre visionario, insinuante. Accetta l’intervista e decidiamo che il luogo giusto è una sala adibita alla degustazione di vini. Barnes ordina un caffè macchiato e dell’acqua naturale, dichiara subito che il fatto che sia diventato uno scrittore ha a che fare con il comico inglese John Cleese di Monty Python.
Nel senso che John Cleese l’ha ispirata?
«Cleese era un comico di enorme successo, poi a un certo punto iniziò ad andare dallo psicoanalista per capire perché in lui fosse così forte il bisogno di essere divertente. Dopo essere stato in analisi decise di smettere di essere simpatico, quasi come fosse una liberazione auto-imposta. Da quel momento divorziò, dovette pagare un sacco di soldi e la sua vita si imbruttì. Allora decise di tornare ad essere simpatico. È una storia che mi fa capire quanto io non voglia indagare perché sono uno scrittore e cosa mi spinge ad esserlo. È semplicemente quello che faccio ora e non mi guardo indietro, non vado a cercare le radici».
Anche se tutto cominciò per timidezza a quanto si dice.
«Da ragazzo ero estremamente timido, era impossibile per me parlare a più di una persona alla volta: una delle motivazioni per cui mi sono ritrovato scrittore, credo, è che scrivere fosse un modo per parlare a più persone contemporaneamente. Ci sono poi motivazioni e ambizioni che arrivano a mano a mano che si narra: come il desiderio di portare avanti il romanzo, raccontare di confini che non sono mai stati raccontati. Mettersi al riparo, anche».
Per «riparo» intende tentare di proteggersi dall’infelicità?
«Sì, in parte. Certamente scrivere è una necessità, ora. Flaubert disse: “Una delle forze psicologiche che mi spingono è l’indignazione”. Diceva di essere come una piccola bambola di pezza, retta da uno stecchetto di legno. Se qualcuno togliesse lo stecchetto la bambola collasserebbe: se qualcuno gli avesse portato via la sua indignazione sarebbe collassato. Conosco una verità che mi riguarda a questo proposito: sarei infelice se non scrivessi o se non pensassi a cosa scrivere, o se non stessi leggendo. Ecco perché continuo a produrre libri a intervalli regolari».
La sua vita è attraversata dall’autore di «Madame Bovary». Non mi riferisco solo al suo romanzo «Il pappagallo di Flaubert» (un’indagine sulla dimensione intima flaubertiana), ma a come l’autore francese abbia saputo reinventare la realtà attraverso la lingua.
«Flaubert è il grande eroe, il grande modello di ogni scrittore. È un grande esempio. Anche se non sono uno scrittore flaubertiano al midollo: sono inglese e lui è morto da 138 anni, ma io rispetto tantissimo i suoi libri, il suo pensiero e il suo approccio verso la letteratura. E torno ancora da lui, sempre. Se mi mettessero davanti un tavolo traboccante di tutti i libri scritti dall’umanità sceglierei sempre il suo Corrispondenza».
E se le dicessi che l’approccio di Flaubert mi ricorda il suo? Intendo come ricerca della parola giusta, certo, ma anche nel saper concepire ogni libro diverso dall’altro.
«Suppongo ci sia un parallelismo da questo punto di vista, sebbene io abbia scritto molte più opere di quanto non abbia fatto Flaubert: ma è anche vero che lui molto più di me non ha mai scritto due volte lo stesso libro, è passato da Madame Bovary a Salammbô, poi L’educazione sentimentale, e i racconti, e l’opera incompiuta Bouvard et Pécuchet. I quattro romanzi principali sono completamente differenti e non si intersecano per nulla. Sotto sotto anche a me piace scrivere libri disorientanti tra loro. Di nuovo, è parte di una considerazione estetica, ma anche una questione di personalità, di non voler fare sempre la stessa cosa e annoiarsene. L’importante è non valutare un’idea a priori. Mai dire: “Oh, questo non lo devo fare perché calpesto un terreno già calpestato”. Mai dire “Rischio troppo”. Mai dire “Forse qualcuno ci rimarrà male”. Quando inizi devi scrivere come se i tuoi genitori fossero morti. E devi trovare il modo giusto per farlo».
Come trova il modo giusto per farlo?
«Ho dei rituali che cambiano da libro a libro. Alcuni rimangono fissi e sono quelli che definirei “tecnici”. Ora, per esempio, inizio a scrivere con penna e quaderno. Raccolgo una serie di appunti fino a quando so di averne a sufficienza per far scattare la miccia del romanzo. Infine uso un modello IBM 196c per battere e ribattere a macchina. Flaubert diceva: “La prosa è come i capelli: brilla pettinandola”. Cito sempre questa frase in pubblico. Una volta una signora venne da me dopo e mi disse: “In realtà non è il pettine che rende i capelli luminosi, ma la spazzola”».
A volte la «spazzola» rischia di cambiare il modo di scrivere, non crede?
«Quando stavo lavorando su Arthur & George accadde una cosa davvero misteriosa. Sono un profondo razionalista, ma se non lo fossi questo momento mi avrebbe davvero insospettito. La mia macchina per scrivere è molto vecchia, c’è solo un uomo a Londra capace di ripararla. Avevo una seconda macchina, stesso modello, da tenere come riserva. Stavo scrivendo un passaggio sul rapporto tra Arthur Conan Doyle e lo spiritualismo e siccome Doyle ci credeva in modo profondo, io ci stavo lavorando molto seriamente. Durante questo passaggio la mia macchina per scrivere si ruppe, presi quella di riserva e si ruppe anche lei. “Questo è il momento – mi dissi – in cui devo davvero imparare a scrivere al computer”. Così, mentre la macchina era ad aggiustare, scrissi circa tre mezzi capitoli che non funzionavano affatto, non sembravano miei. Il computer ti porta ad eccessive correzioni e se ci pensi è inerte fino a quando non schiacci il pulsante e lo risvegli. Invece la macchina per scrivere è sempre viva, fa un meraviglioso ronzio che pare dirti “ti sto aspettando, non ti do fastidio”, diventa una sorta di musa che accompagna a una naturalezza meravigliosa».
Dove scrive?
«Nel mio studio, a casa. Ho attraversato le solite crisi di interferenze: sei nel tuo studio e il telefono suona, dovresti rispondere; il fax parte, dovresti leggere; la gente viene a trovarti a casa e dovresti intrattenerli e poi – per questo dovremmo ringraziare la tecnologia – sono arrivate le email, che puoi gestire quando preferisci. In passato mi è capitato di dovermi isolare in campagna per una o due settimane dovendo rimettere insieme il libro che mi sembrava mi stesse scivolando di mano, ma ora preferisco lavorare a casa e adoro il fatto che il mio ufficio sia a cinque metri dal mio letto. C’è questo rituale che ho: mi alzo con calma e inizio la giornata con il cruciverba crittografato del “Guardian” perché fa ingranare il mio cervello e fa iniziare il flusso di parole. Poi mi ritiro nello studio, rispondo a qualche email e finalmente mi metto al lavoro. Di norma prediligo il mattino, lavoro dalle 10 alle 13 e poi ogni tanto la sera, tra le 17 e le 19, ma devi imparare a conoscere il tuo corpo e il tuo cervello per essere efficiente al massimo come scrittore, e credo che la mattina sia il momento in cui la testa è più sveglia e riesce a dare retta alla mia immaginazione».

C’è qualche tentazione che vince sulla scrittura?
«Ho un iPhone ma lo uso solo quando viaggio, per ogni evenienza. Non sono uno schiavo della tecnologia, ma lo sono stato in queste settimane dei Mondiali di calcio. Ci sono momenti, quindi, in cui non riesco a portare a termine una pagina perché una partita è una distrazione robusta. Ma so proteggermi perché la scrittura è la priorità e so di avere la tempra dello scrittore.
«Conosco autori che dicono: “Adoro scrivere ma è talmente noioso che mi serve avere musica di sottofondo”, così penso: “Ecco perché la tua prosa non ha musica” – è impossibile scrivere con la musica. Altri dicono: “Mi piace sbrigare in fretta il lavoro per poi andare a far festa”, così penso: “Ecco perché i tuoi libri sono così noiosi”».
Anche da giovane la scrittura era la priorità?
«No, perché pensavo che la scrittura fosse un mestiere altrui, volevo solo diventare un buon lettore. In fin dei conti diventare un buon lettore è stato il primo passo per diventare uno scrittore. Se mi chiedono come si diventa uno scrittore dico sempre: “Leggi, leggi, leggi” e poi provaci.
«Inoltre, da ragazzo non ero dotato di grande autostima. Mi sono dedicato per un po’ al giornalismo e, sebbene si dica che il giornalismo sia nemico della scrittura, per me è stato un grande aiuto. Se scrivi cinquecento parole in un giornale di provincia nessuno ti ferma per strada per dirti che sei stupido e non puoi farlo. All’epoca ho lavorato per qualche anno come giornalista letterario e opinionista e a poco a poco questo mi ha dato la sicurezza necessaria a cimentarmi con il mio primo romanzo (e comunque mi ci vollero 7-8 anni a scriverlo, sebbene sia di sole 180 pagine)».
Prendiamo il Julian Barnes lettore: ha autori o libri di riferimento, Flaubert a parte?
«Voltaire, con Candido, è stato molto importante, perché è un libro sempre contemporaneo per audacia e insolenza. Basti pensare alle famose scene ambientate nella Lisbona devastata dal terremoto, fatto accaduto soltanto un paio di anni prima di quando scrisse quel libro. Non è un romanzo teoretico o incentrato su una morale astratta rispetto ai sentimenti umani, è un romanzo sull’oggi.
«A scuola ho studiato francese e russo, quindi la seconda letteratura straniera a cui sono più legato è quella russa. Amo Un eroe del nostro tempo di Michail Jur’evic Lermontov. Era un poeta che come Pushkin venne ucciso in duello. Scrisse un solo romanzo, anche se molti accademici non lo definirebbero tale. Ha un protagonista centrale e si struttura come una sequenza di quattro storie. Anche Oblomov di Ivan Goncharov è un’opera che continuo a rileggere. Poi però penso sempre che il romanzo sia una forma che non progredisce, mentre invece la poesia e la drammaturgia sono generi che possono progredire. Il romanzo è come un grande tavolo rotondo al quale tutti conversiamo.
«E poi c’è Don Chisciotte: qui ci trovi già il grosso del postmodernismo in un passaggio che è uno dei miei momenti preferiti della letteratura. Il Don Chisciotte è diviso in due parti: la prima parte pubblicata nel 1605 e la seconda nel 1615. Nella prima parte ci sono tutte le storie famose (mulini, pecore...), nella seconda c’è un’altra avventura: Don Chisciotte e Sancho Panza si fermano a dormire in una locanda e attraverso il muro sottile della loro stanza sentono un gruppo di persone discutere sulla prima parte di Don Chisciotte e su di loro e pensi: “Che cosa possono fare di meglio modernismo e postmodernismo rispetto a questo?”. Alcuni di noi cercano di fare cose nuove, e alcuni ci riescono, ma non dobbiamo dimenticarci che molto è già stato fatto».
E di autori contemporanei, Ian McEwan escluso (lei e McEwan siete molto amici)?
«Penso che Michel Houellebecq sia molto interessante. È sicuramente un uomo molto intelligente, non sono sicuro sia uno scrittore altrettanto intelligente, ma è una cosa diversa».
E Philip Roth?
«Preferisco John Updike: penso che la trilogia del coniglio sia la migliore produzione americana del dopoguerra. La mia cara amica Lorrie Moore, autrice di racconti, disse: “Updike offre lo strano esempio di un grandissimo autore che non ha mai scritto un grande libro” e io rispondo sempre che tutti i suoi libri vanno considerati come un grande libro unico!
«È abbastanza strano che quando Updike morì non gli venne reso lo stesso omaggio, almeno in Inghilterra, che invece ha avuto Roth. A Roth hanno dedicato intere pagine, forse perché pareva incarnare l’ultimo della sua generazione. E quindi in un certo senso salutando lui, salutavano tutti».
Per Updike la memoria era un luogo da cui fuggire: ricordare per lui è ammettere che si è cresciuti, e che dobbiamo assumerci delle responsabilità. Per lei la memoria è una riscrittura della realtà. Quando ricordiamo possiamo riscrivere ciò che è accaduto. E non mi riferisco solo a «Il senso di una fine» ma anche a «Livelli di vita» e all’intero paradigma della sua produzione.
«Penso che recentemente, nei miei ultimi lavori, l’interazione tra tempo e memoria stia diventando qualcosa di ricorrente. E penso sia normale quando si invecchia, come persona e come scrittore: si impara come spostare i personaggi e la narrazione nel tempo. Quando sei agli inizi, pensi a cosa accadrà in ordine cronologico. Da giovane non avrei mai potuto fare quello che ho messo in campo per Il senso di una fine, ovvero: ecco la vita del protagonista fino ai ventuno anni, poi non ti dirò nulla dei successivi quarant’anni, se non un paragrafo, e il resto del libro è incentrato sullo stesso uomo a sessant’anni. Puoi fare quarant’anni in due paragrafi. Alice Munro, nei suoi racconti, è straordinaria: dipana la vita intera di un personaggio in un racconto di trenta pagine. E non noti buchi. Anche Updike, in età più avanzata, aveva imparato a spostarsi nel tempo con più libertà. E comunque ho fatto un voto: non scriverò un altro romanzo su un uomo anziano che riguarda indietro tutta la sua vita. Forse un vecchio che guarda avanti, ecco, quello potrebbe essere interessante! Mi sfugge il finale, però».
A proposito di finali, conosce sempre l’epilogo di un libro prima di scriverlo?
«Quasi mai. Ma quando inizio devo essere certo di avere sufficiente materiale per scrivere un intero romanzo, anche senza sapere dove andrà a parare. Solitamente non comincio dall’incipit, ma dalla scena più importante che potrebbe essere a qualsiasi punto della trama. Poi ci sono gli imprevisti, ovviamente. Ricordo che quando lavoravo a Il senso di una fine ebbi un’epifania a circa un terzo della stesura che mi costrinse a rivedere tutto. Ma l’importante è avere sempre una questione morale intorno alla quale riflettere, per poi chiedersi: “A chi capita tutto questo?”, lasciandosi guidare e ascoltando perfettamente i sintomi che una storia ti comunica».

Ha un sintomo in particolare che la guida nella scrittura?
«L’interesse. John Cheever non era solito offrirsi volentieri ai media e concesse una sola intervista alla televisione inglese. In questa occasione disse: “Il primo canone dell’estetica è l’interesse”. Molto semplice, molto vero. Devi essere interessato a quello che scrivi, altrimenti non puoi in alcun modo coinvolgerti e coinvolgere il lettore. Lui e Updike fecero una storica apparizione insieme al Dick Cavett Show nell’ottobre del 1981. È molto interessante da rivedere, perché Cheever era più senior di Updike e ci si ritrova di fronte a due scrittori che si ammirano palesemente. Ed entrambi si rendono conto di essere finiti in un programma molto generico e nel parlarsi sono molto parchi, sembrano quasi volersi scusare con Cavett perché discutono di letteratura. Ma Cavett, che è molto intelligente, tirò fuori una grande intervista. Cheever apparve molto fragile, del resto non era chiaro a quale punto della sua relazione con l’alcool si trovasse al tempo, mentre Updike si dimostrò molto a suo agio, quasi premuroso nei confronti di Cheever. È davvero commovente».
Proprio Cheever, riguardo all’essere scrittore, diceva che una buona salvezza è convincersi che l’ultimo libro pubblicato è sempre il migliore.
«È chiaro che se hai pubblicato due libri i lettori tenderanno a preferirne uno all’altro. È inevitabile. Dopo che ne avevo scritti cinque o sei, però, è emerso che molti lettori ne avevano identificato uno che amavano meno degli altri. La prima reazione di fronte a questo è stata di difendere quell’opera a spada tratta: “Sono troppo stupidi per capirlo, è decisamente troppo raffinato per loro!”. Ma ora che ho in scaffale tredici romanzi, tre raccolte di racconti e molti saggi prendo con filosofia il fatto che i lettori possano non apprezzare tutte le mie opere. Nutro ancora una tenera preferenza per Il pappagallo di Flaubert: non so se sia il mio libro migliore, ma è quello per cui ho trovato la forza e la sicurezza di provare a fare qualcosa di diverso, qualcosa che non era mai stato fatto prima. Ed è anche stato il mio primo libro ad essere tradotto: per la prima volta mi sono ritrovato a realizzare quanto affascinante fosse che la mia storia potesse essere raccontata in un’altra lingua».
In Italia lei è tradotto in modo eccellente (da Susanna Basso e Daniela Fargione, perlopiù). Negli anni è riuscito a custodire il fascino della traduzione rispetto alle sue opere?
«Ho sempre scritto in inglese, provando a usare la lingua al massimo delle sue e delle mie capacità, per lettori che avrebbero capito quella lingua. Ricordo di aver sentito alla radio, una volta, un’intervista in cui Ishiguro disse: “Stavo scrivendo una frase, ma poi pensai che sarebbe stata troppo difficile per il mio traduttore scandinavo, allora l’ho riscritta”, pensai che fosse pazzesco! Capita che il mio traduttore si lamenti del fatto che sono difficile da tradurre ma io gli rispondo che onestamente non lo invoco mai quando scrivo.
«Non credevo neanche che i francesi si sarebbero interessati a Il pappagallo di Flaubert: se uno scrittore francese avesse scritto un libro su Dickens con una strana forma – e gli inglesi direbbero che lo fa perché è francese – non penso che gli inglesi lo avrebbero considerato. Dunque per me era vero anche l’inverso. E invece lo accolsero molto bene. Quella fu la prima volta in cui capii, dal punto di vista dello scrittore e non più del lettore, quanto la letteratura fosse capace di attraversare frontiere, territori, confini. Cogliere questa potenza come scrittore è stato davvero toccante. Da allora sono cambiate moltissime cose, e io spero di averne fatto tesoro».
Che scrittore è diventato da allora?
«Non mi sento seduto su un piedistallo mentre il lettore sta in basso, il lettore è al mio livello. Siamo seduti insieme al bar e commentiamo quello che accade dall’altra parte della strada. Adoro l’idea di coinvolgere il lettore nel racconto di cosa si compie di fronte a noi. Non voglio prenderlo in giro, voglio piuttosto coinvolgerlo in un gioco serio. Anche se si tratta di tragedie, o del dolore».
Il dolore: dopo la morte di sua moglie ho personalmente cercato di non farmi influenzare dicendomi: «Chissà come scriverà ora». Ma non ce l’ho fatta, ho fatto l’errore di prendere le sue opere considerando il lutto di Julian Barnes. La mia impressione, adesso, è che lei sia riuscito a tenere fuori dalle pagine l’elaborazione e a condensare in libri come «Livelli di vita» una storia. Semplicemente una storia, di tutti.
«Ricordo che due mesi dopo la morte di mia moglie, un amico, un caro amico che cura il mio sito ed è un grande appassionato del mio lavoro, mi disse: “Sono curioso di vedere come cambierà la tua scrittura con questo lutto”. Quando perdi una persona cara, la gente ti dice ogni tipo di frasi, alcune cose hanno senso, altre molto meno; tante ti fanno arrabbiare, alcune sono giuste. È molto difficile per chi hai intorno parlarti, hanno paura di sbagliare toni e molto spesso lo fanno. E io al tempo mi dicevo: “Davvero si sta preoccupando di come cambierà la mia scrittura? È la mia ultima fottuta preoccupazione in questo momento!”, ma poi pensai che forse intendeva che la sofferenza avrebbe reso i miei romanzi più profondi, in qualche modo.
«Sta di fatto che non potevo tollerare l’idea di diventare uno scrittore migliore grazie alla scomparsa di mia moglie. È insopportabile per me, ancora oggi. A lungo quel pensiero è riaffiorato occasionalmente in un angolo del mio cervello ma io lo scacciavo sempre: non volevo e non voglio che la sua morte mi migliori come scrittore, come potrei volerlo?».
Si ringrazia Greta Messori per la preziosa collaborazione