La Lettura, 15 luglio 2018
Rossini è un delirio, non una sitcom
«Miglior cuccagna» per un Barbiere di Siviglia proprio non si dà, in quest’annata rossiniana, che riprendere la tradizione operistica di Lugano, vecchia di almeno due secoli e che negli anni ha visto coraggiose produzioni al Palazzo dei Congressi, curate da Carlo Piccardi o al Teatro Kursaal (ex Teatro Apollo), oggi trasformato in casinò, in cui andò in scena un’importante edizione del Barbiere, nel 1985, con Alva, la Serra, Siepi, Corena e Portella, diretta da Bruno Amaducci con regia di Filippo Crivelli. Tocca al Lac, a tre anni dall’apertura, far risuonare ancora le «invenzioni prelibate» uscite dalla fucina di Rossini in quello che è il debutto lirico dell’istituzione: la commedia umana di Almaviva, Rosina, Basilio, Bartolo, ovviamente Figaro, personaggi per niente docili ma adorati dal pubblico a dispetto della cattiveria e del cinismo che rivelano nell’opera.
Al Lac sarà il Barbiere dei destini incrociati, di LuganoInScena e LuganoMusica – che ha appena presentato una ricca stagione – il cui sforzo congiunto si vedrà dal 3 al 9 settembre.
Sul podio Diego Fasolis con i suoi Barocchisti e gli spartiti della Fondazione Rossini di Pesaro. «Un Barbiere con strumenti originali – spiega Fasolis a “la Lettura” – è una rarità persino in un periodo come il nostro in cui fiati antichi e corde di budello agli archi si usano regolarmente, non solo per il repertorio barocco e del primo classicismo, ma anche per quello ottocentesco. Eppure, paradossalmente, al pubblico può sembrare più innovativa un’esecuzione su strumenti storici che una tradizionale. Anzi, mi permetto di dire che “tradizione”, nel caso delle stratificazioni e rimaneggiamenti subiti dal Barbiere, può persino diventare sinonimo di “tradimento”». Tanto che secondo il direttore luganese qualsiasi abitudine, anche se rassicura, chiude gli orizzonti: «Vale in campo artistico, ma potrei dire anche in quello culinario. È importante godere di gusti e sapori nuovi ed essere pronti a farsi sorprendere».
La regia sarà firmata da Carmelo Rifici, che nella leggerezza di Rossini ha colto, più che il divertimento, uno «spaesamento» in anticipo sull’espressività del teatro del Novecento, con tutti i suoi assurdi e straniamenti: «Quello di Rossini – dice Rifici a “la Lettura” – è un teatro universale e astratto, svincolato da Settecento e Ottocento. La sua leggerezza non va riferita tanto ai lazzi della commedia dell’arte, quanto alle fragilità dell’animo umano, incapace di resistere ai tempi nuovi che avanzano, rappresentati da figure come Rosina o Figaro». Quindi non dovremo aspettarci le solite gag in questo Barbiere: «Non avrebbe senso ricorrere a un realismo scenico, non perché manchino i passaggi comici, ma perché questa comicità maschera la miseria dei personaggi».
Insomma Rifici ha in mente un Rossini dark, in analogia con quanto è accaduto in prosa alle commedie di Goldoni (vedi alla voce Strehler o Das Kaffeehaus, la Bottega del caffè rifatta da Fassbinder). Forse l’aveva intuito anche il suo maestro, Luca Ronconi, quando mise in scena a Pesaro un Barbiere che, senza sfidare la tradizione, coglieva tutto il nero di quest’opera. «Rossini non voleva una sitcom: se i personaggi sono continuamente fuori controllo è perché tendono a un impazzimento che nasconde le loro inquietudini». Nessuno capisce fino in fondo ciò che sta facendo: è Figaro che manipola Almaviva o viceversa? «Chi è agente di chi? Rossini porta a fare i conti con qualcosa che attraversa i personaggi senza mai definirli del tutto».
L’opera si interrompe continuamente con momenti di delirio: il celebre concertato del primo atto, in cui il cervello «si riduce ad impazzar», l’aria del sorbetto del secondo, in cui la governante Berta si chiede cosa sia «questo amore che fa tutti delirar», anche se «è subito dopo, con la scena del temporale, che capiamo che solo la musica è capace di toccare queste corde più cupe».
Anche le scene di Guido Buganza, di gusto vagamente iberico ma quasi metafisiche, manterranno lo stesso senso di astrazione voluto dalla regia. «Sarebbe stato logico stringere gli spazi – commenta Rifici – cercando sulla scena un’intimità che si legasse al suono di un’orchestra di strumenti storici; invece abbiamo deciso esattamente il contrario: di allargarli, portando i cantanti a vivere in uno spazio vuoto, per replicare sul palco lo stesso contrasto tra la musica astratta di Rossini e il lucido libretto di Sterbini». Soltanto le luci aiuteranno il pubblico a orientare lo sguardo, «non solo con fari ma anche con barre led, linee di luce per ricreare esterni e interni immateriali, come i contorni di una stilizzata riformulazione degli spazi». Nella seconda parte domineranno gli strumenti musicali: un mandolino come porta, un enorme clavicembalo come palcoscenico sul palcoscenico. Ogni elemento è pensato per comunicare uno spaesamento della scena e sulla scena: «I personaggi vivono in un luogo che può sparire da un momento all’altro, esattamente come scompare la scala alla fine del secondo atto, quando Figaro, Almaviva e Rosina rimangono intrappolati in casa. Ecco, quella scala scomparsa rappresenta la scomparsa della commedia dell’arte: non è solo uno sketch comico, è un episodio che comunica qualcosa di più umano e inquieto».
Secondo Rifici – che in passato, oltre a una fortunata Medea di Cherubini, ha affrontato anche I puritani di Bellini – la capacità di Rossini di accedere all’assoluto si ritrova in tutta l’opera italiana: «Questi capolavori racchiudono un universale che non va ingabbiato registicamente. Forse sarebbe meglio abbandonare ogni tentativo di opera mimetica e dimenticarsi che ci sono dei personaggi, permettendo alle voci e all’intero meccanismo musicale di Rossini di liberarsi, come matematica pura in volo».