La Lettura, 15 luglio 2018
«Percorrete le città come me: da camionista , non da turista». Intervista al fotografo William Klein
Sguardo prensile sulla vita: William Klein, icona della street photography, rivela la stessa attitudine anche quando la vista è fuori gioco. Mentre parla al telefono ti osserva, non gli basta immaginare: «Ti chiami Maria, sapevi che c’è una Maria in West Side Story?». L’artista, 90 anni compiuti lo scorso aprile, il luglio sarà al Castello di Corigliano d’Otranto, in Puglia, per la Festa di Cinema del reale che lo vede protagonista con una mostra fotografica e una rassegna di suoi film. Nato a Manhattan, vive a Parigi e si dice innamorato dell’Italia: «Come ha giocato la vostra squadra ai Mondiali?». È incredulo quando scopre che la Nazionale non si è neppure qualificata: «Very sad»,molto triste.
Mr. Klein, cosa ricorda dei suoi anni italiani?
«Ho sempre visto l’Italia attraverso i film. Gli anni Cinquanta sono stati straordinari per il cinema. Da grande fan di Federico Fellini, decisi di contattarlo: all’epoca era più facile, non c’erano tutti gli agenti che ci sono adesso. Gli mostrai il mio libro su New York e mi disse: “Vieni a Roma, sarai il mio aiuto regista per Le notti di Cabiria”».
Fa molto «American dream», come andò a finire?
«Accettai, ma sottovalutai il Fellini dei Vitelloni...».
La proposta si rivelò una boutade?
«Fellini non mi disse che aveva già un assistente ma ormai ero a Roma».
E con le immagini scattate nella Capitale realizzò un altro volume.
«In quel periodo la fotografia si stava aprendo ed essere a Roma, negli anni della Dolce vita, era molto eccitante».
Perché ha scelto la strada come campo di osservazione?
«Per lo stesso motivo per cui la gente sceglie di scalare l’Himalaya: è lì, available, a disposizione».
Non era scontato, quando ha iniziato come apprendista pittore nello studio di Fernand Léger.
«L’America offriva ai giovani soldati l’opportunità di studiare quello che volevano come risarcimento per gli anni al fronte. Io ero stato arruolato nell’esercito in Germania e chiesi di andare a Parigi».
Perché scelse l’atelier di Léger?
«Era un artista rivoluzionario e allora desideravo diventare pittore in Francia. A noi giovani, che sognavamo il successo, diceva: “Se volete incontrare la gente dei musei e costruirvi una carriera, prima studiate i maestri del Quattrocento: Masaccio, Piero della Francesca, Beato Angelico...”».
Lei, però, prese un’altra direzione.
«La pittura era fashion, di moda. Io volevo fare il regista e pensavo di arrivarci attraverso la fotografia».
Quali sono gli aspetti più stimolanti di immergersi con la macchina fotografica nello spazio urbano?
«L’opportunità di imparare come vivono le persone nei luoghi che mi interessano. In tutte le grandi città che ho raccontato nei miei libri mi sono mosso come un camionista, mai da turista».
Presto sarà in Puglia.
«Non ci sono mai stato, sarà la prima volta, mi dicono sia splendida. Ma conosco la Sicilia, mi invitarono anni fa per un festival di fotografia».
Torna spesso in Italia?
«Tutte le volte che posso».
E come la vede oggi rispetto agli anni della sua giovinezza, della Dolce vita...
«È cambiata, certo, ma per me rimane quella che ho conosciuto attraverso i film: Fellini, De Sica, Risi, Antonioni».
Non le sembra una visione un po’ nostalgica?
«Non c’era niente di romantico in quei film, non si preoccupavano della bellezza».
Da newyorkese che vive in Francia cosa pensa dell’immigrazione, tema sensibile sia alla frontiera tra Messico e Usa sia nei rapporti tra Stati europei?
«È un argomento del quale preferisco non parlare».
Ha lasciato l’America molti anni fa, oggi come vede il suo Paese al di qua dell’oceano?
«Come una strana nazione. È un miracolo che gli americani abbiano eletto Barack Obama, il primo presidente nero, perché sono razzisti. Ora c’è Donald Trump, un fascista, ed è irrealistico».
I suoi connazionali sono volubili, cambiano idea facilmente?
«Non pensano, si sono incasinati il cervello».