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 2018  luglio 15 Domenica calendario

García Lorca semina, Spicer coltiva e raccoglie

Jack Spicer cominciò a scrivere i testi After Lorca nel 1955, all’età di trent’anni. Il volume uscirà due anni dopo in tiratura limitata, secondo quella che resterà poi una scelta costante dell’autore. Si tratta del primo libro che il poeta californiano ha riconosciuto come davvero suo. L’introduzione porta la firma di Federico García Lorca, che era stato fucilato poco più di vent’anni prima. Vi si afferma tra l’altro: «La mia reazione al manoscritto inviatomi (e alla serie di lettere che ora ne fanno parte) era e resta fondamentalmente negativa. Mi sembra lo spreco di un considerevole talento, per qualcosa che non vale la pena di essere fatto».
L’introduzione, per di più sfavorevole, scritta da un morto, le lettere sulla poesia che a quest’ultimo vengono indirizzate dal poeta più giovane, e poi le traduzioni di Lorca, che però traduzioni propriamente non sono, perché contengono manomissioni, inserimenti, stravolgimenti compiuti dallo stesso Spicer: basta forse questo a dire dell’alto grado d’invenzione e dell’originalità di quella strana, inclassificabile, ma certo riuscitissima opera poetica che è After Lorca (curata da Fabio Orecchini e Andrea Franzoni, a cui si deve anche la traduzione italiana, è uscita per le edizioni Gwynplaine). Eppure l’intento dell’autore è esattamente l’opposto. «L’invenzione è nemica della poesia», scrive infatti. Così, se si pensa che non è più possibile distinguere a chi davvero appartengano questi versi, si può dire che il gioco sia senz’altro riuscito. È proprio questa, infatti, la zona d’indifferenza e di non proprietà personale che per Spicer coincide con la poesia: «Piccole aquile, chiesi loro,/ Dove son sepolto?/ Nella mia coda, disse il sole./ Nel mio gozzo, disse la luna.// Sui rami d’alloro/ Vidi due piccioni nudi./ L’uno era l’altro/ Ed ambedue nessuno».
Anche il dialogo con il poeta estinto si rivela allora una stranezza solo apparente, e anzi ci riporta nel ventre più profondo della tradizione della poesia. Già il nostro Pascoli, pensando alla Commedia dantesca, sosteneva che non esiste situazione di per sé più poetica che il colloquio coi morti. Accade così anche in questo libro, dove il discorso poetico è sempre almeno a due voci. Spicer è un poeta intraprendente, ironico, spesso giocoso, dal temperamento irriverente e anticlassico. Eppure il suo intento fondamentale è di dare adito a una grande funzione antropologica, contribuendo alla preservazione di qualcosa – la lingua? la poesia? la continuità della specie? – che attraversa ma eccede il singolo individuo, quella che definisce «la grande bugia del personale». E infatti, come scrive in una delle lettere, tradizione «significa generazioni di poeti differenti in Paesi differenti, che raccontano pazientemente la stessa storia, che scrivono la stessa poesia, guadagnando o perdendo qualcosa a ogni trasformazione – ma, ovviamente, non perdendo mai nulla veramente».

Per tutti quei poeti che hanno fatto del cosiddetto io poetico una specie di idolo negativo (pur tra mille contraddizioni sono stati tanti negli ultimi decenni), Spicer dovrebbe dunque rappresentare una specie di apripista. Eppure proprio la sua critica dei concetti d’innovazione e d’avanguardia dovrebbe mettere molta prudenza al riguardo. Il fatto stesso che la sua prima opera organica sia un dialogo con un poeta del passato, di cui attraverso le inarcature della scrittura poetica si cerca d’intercettare e promuovere il retaggio, appare di per sé eloquente. E altrettanto significativo è il fatto che tra gli anni Cinquanta e la metà dei Sessanta la sua collocazione nel panorama poetico statunitense risulti alquanto sui generis («non fu mai totalmente integrato, né nella cultura ufficiale, né nella controcultura del suo tempo», ha scritto Peter Gizzi nella postfazione al volume). Era stato uno dei promotori più importanti del movimento artistico e culturale definito come «San Francisco Renaissance», da cui scaturirà poi il tanto più celebrato movimento beat. Ma da quest’ultimo prenderà però le distanze, criticandone la miscela di semplificazione poetica e vocazione commerciale. Al riguardo, si dovrebbe leggere la lettera del 1964 con cui Spicer rifiutò a Lawrence Ferlinghetti, proprietario del City Light Bookstore, il permesso di mettere in vendita i suoi libri (la si può trovare in un altro libro di Spicer, I capi della città su fino all’etere).
Come lo ha definito il suo autore, After Lorca costituisce un serial poem, vale a dire una sequenza poetica unitaria quanto a concezione e argomento. Da questo punto di vista, la poesia di Spicer nasce giusto all’incontro tra una componente progettuale molto forte e un’idea della voce poetica come spersonalizzazione e «dettatura» (la parola è sua), come diretta registrazione di qualcosa che viene da un altro o da un altrove. Anche le successive opere di Spicer verranno intese in questo modo. Un «curioso amalgama», così nella sua introduzione lo definisce García Lorca, quasi fosse il morto vivente di un’operetta morale leopardiana. E, davvero, c’è da prenderlo in parola.