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 2018  luglio 15 Domenica calendario

All’uomo serve ordine. Alla natura non sempre

La ricerca dell’ordine da parte dell’Homo sapiens (la predisposizione del cervello ad acquisire informazioni dal mondo per orientarsi e sopravvivere) ha radici profonde: per i nostri progenitori era vitale, ad esempio, discriminare un oggetto da un contesto (una mela rossa) o un corpo statico da uno dinamico (un animale pericoloso o una preda potenziale). Dall’elaborazione di quell’eredità filogenetica deriva – oltre a un insieme di predilezioni estetiche, come quella per la simmetria – la tensione a reperire regolarità (leggi fisiche, invarianze geometrico-matematiche, riscontri statistici) che ci aiutino a decifrare l’«ambiente» a più livelli, dalla struttura dell’universo all’andamento dei flussi finanziari o migratori. E ora due libri, da leggere a staffetta, uno in seguito all’altro, danno una forma a quella tensione, convergendo (tra scienze naturali e umane) nel cercare un orientamento nel caos apparente del mondo contemporaneo.
Il primo, il folto studio comparativo Scala (Mondadori) del fisico teorico Geoffrey West, è fatalmente più ambizioso, e, come tutti i testi simili, emana una suggestione a cui è difficile resistere. West ha infatti un obiettivo chiaro quanto titanico: dimostrare come tanti fenomeni e processi «socio-culturali» in corso (urbanizzazione crescente, innovazioni sempre più ravvicinate, utilizzo delle risorse energetiche) siano riconducibili a relazioni geometrico-matematiche «naturali», le stesse che troviamo, ma a una diversa grandezza di «scala», nel numero di battiti cardiaci di ogni mammifero o nei limiti di crescita e durata di ogni organismo (non a caso equiparati a quelli di una multinazionale). 
Vedi, per una messa a fuoco immediata, l’incidenza della «legge di Kleiber» (dal nome del biologo svizzero che l’ha formulata), con l’esponente ¾ riferito al metabolismo animale (al raddoppiare del peso corrisponde un aumento di consumo energetico del 75%) che si ritrova nel rapporto tra l’aumento di abitanti in una metropoli e quello dei distributori di benzina (anche lì, più o meno, 100 e 75). A diversa grandezza scalare, secondo West, agirebbe un’identica «ottimizzazione» energetico-economica. Del resto, l’esponente ¾ (insieme al suo «rovescio», ¼) è uno dei mantra numerici del libro, dato che lo si ritrova (in relazione alla crescita di un organismo) nelle dimensioni cerebrali o nelle sezioni dell’aorta e dei tronchi d’albero. 
Lungo questa fantasmagoria analogica, il testo di West ha grandi meriti didattici. Su tutti, la distinzione tra le tipologie di scale: lineari (le più semplici), «logaritmiche» (come la scala Richter dei terremoti, nella quale, in modo contro-intuitivo, un sisma di grado 6,7 è 10 volte più intenso di uno di grado 5,7) e «frattali», dove per frattali si intendono quegli oggetti connotati da autosimilarità, cioè da un «effetto-matrioska» in cui ogni sotto-unità successiva ripresenta gli stessi tratti dell’intero (qui gli esempi-clou sono i broccoli, ma potremmo citare anche i polmoni o i profili o le linee costiere). 
Il tutto si presta però a critiche di un paio d’ordini. Per un verso, queste invarianze geometrico-matematiche non sono sorprendenti come West lascia intendere: in fondo, ogni organismo o oggetto del nostro lucky planet (unico per condizioni favorevoli alla vita) è sottoposto a ogni livello allo stesso «cappotto» di vincoli e processi: biochimica intrinseca, leggi fisiche (gravità, leggi del moto, principi termodinamici) e, nel caso dei viventi, selezione naturale. Perché non dovrebbero ripresentarsi gli stessi pattern strutturali e formali? Per un altro verso, nel «mondo esterno» (e nel cervello che cerca di decifrarlo) non si trovano solo «semplicità, regolarità, unità», ma anche i loro opposti: la stessa fisica, come West sa bene, ha lottato a lungo per armonizzare livelli di comportamento della materia inconciliabili (dai quanti ai pianeti) ed è sul punto di rinunciarvi, accontentandosi di piani descrittivo-esplicativi più «perimetrati» e meno totalizzanti, almeno per ora.
Anche la conclusione del libro sull’impossibilità di sostenere una crescita illimitata (che pure ha il pregio di chiarire il carattere «esponenziale» e deterministico del rapporto crescita-innovazione, cioè il nostro viaggiare su tapis roulant che accelerano, dovendo saltare «da uno all’altro in un tempo sempre più rapido») non si traduce che in una chiusa vagamente apocalittica, senza vere proposte o almeno prospettive.

Qui torna utile il secondo libro, quello degli storici Tommaso Detti e Giovanni Gozzini L’età del disordine (Laterza), che tratta un periodo esteso dal 1968 a oggi, con la data d’inizio come innesco di tanti processi in corso. Anche Detti e Gozzini vedono di fatto nella «crescita esponenziale del consumo di energia» il principale condizionamento degli scenari prossimi. E anche loro, analizzando tutti i versanti del «disordine» contemporaneo (il prevalere della finanza sull’economia, il rapporto tra demografia e flussi migratori, il nuovo assetto geopolitico e il terrorismo) cercano un «ordine» sottostante e criptato, o almeno un orientamento che attenui l’angoscia-confusione del «cittadino globale». Solo che, scendendo dal livello «platonico» di West a un contesto più prosaico, cercano, oltre a invarianze e similarità, discontinuità e differenze, tra aree geografiche (Paesi e continenti) come tra epoche. 
Il risultato, dovuto all’intreccio di dati statistici aggiornatissimi, è non meno contro-intuitivo di quello di West, e altrettanto a-ideologico. Alla retorica liberista, Detti e Gozzini ricordano come l’«ineguaglianza necessaria» (fondata su una lettura mitizzante della «curva di Kuznets», secondo cui disparità temporanee sono necessarie per poi essere riassorbite dal mercato) sia stata smentita sia dalle parabole occidentali (Usa in testa), sia dall’incidenza dell’uguaglianza (insieme all’istruzione) nei recenti successi asiatici. Alla retorica nazionalista xenofoba ricordano che i flussi migratori non sono più marcati che in passato (specie se rapportati all’incremento demografico). A quella progressista, che la povertà globale è diminuita (vedi Cina e India) e le carestie di fatto si sono arrestate. 
Il vero scenario prossimo dipenderà dalla conferma di un ordine mondiale sotto l’egemonia di una potenza, che siano gli Usa o altri (secondo la teoria di Kissinger) o dalla sua sostituzione con un assetto multipolare; e soprattutto, tra un tentativo di governare con politiche transnazionali e il diritto internazionale i blowbacks di una globalizzazione inevitabile (si tratti di emissioni di CO2 o terrorismo, ineguaglianza o finanza patologica) e quello di spezzarla sotto le spinte della frammentazione local-regionale. 
È difficile non condividere il memento finale di Detti e Gozzini. Se (come insegna la scuola «realista», Kissinger sempre in testa) simili accordi globali sono stati possibili solo dopo guerre devastanti, non è detto che anche stavolta sia necessario quel passaggio. È un’«invarianza» che sarebbe meglio non verificare.