Il Sole 24 Ore, 15 luglio 2018
Hollywood all’italiana. Una mostra al Museo Ferragamo
Nel 1915 una folla strabocchevole inonda l’inaugurazione dei padiglioni della Panama Pacific International Exposition: organizzata per celebrare il completamento del canale di Panama è un’occasione per San Francisco di mostrarsi al suo meglio, a un decennio dal terremoto, e per vedere il meglio del resto del mondo. È un successo clamoroso: e, sui 110 padiglioni, il primo premio, guarda tu, lo vince la Cittadella Italiana di un giovane Marcello Piacentini (destinato a diventare una archistar dopo quell’esperienza californiana) che riprende stilemi e simboli di un armonico «cantuccio d’Italia»; ritira il premio Ernesto Nathan con tanto di feluca, alamari e divisa da Accademico d’Italia; del resto era stato lui, l’ex sindaco mazziniano e massone (ma soprattutto sindaco capace) di Roma che aveva voluto fortemente l’incarico a Piacentini: tempra d’uomo, di lì a qualche mese si “riarruolerà”, volontario, a 70 anni, a combattere la Grande Guerra!
L’aura dell’italianità soffia già forte in quella parte d’America, ai primi del secolo: tutti vogliono richiamarsi ai valori della civiltà rinascimentale italica (almeno, nello spirito) e non manca l’opportunità, però, di vedere il meglio dell’arte italiana super-contemporanea a quell’Expo, e cioè i futuristi: alla Galleria 141 ecco un colpo d’occhio con Balla, Depero, Boccioni... La nostra comunità di migranti (quando i migranti eravamo noi, a milioni...), sulla West Coast è integrata e ben voluta. In California gli italiani sono noti come agricoltori e viticoltori, i Fontana Cerrutti diventeranno celebri con il marchio Del Monte (vi dice qualcosa?), i fratelli friulani Jacuzzi spopolano con le pompe di irrigazione (per ora, poi si specializzeranno in altro), i pescatori ischitani insegnano ai locali la pesca alle sardine. Ci distinguiamo anche per la finanza (con diverse banche) e nell’editoria: in quegli anni si pubblicano almeno due (!) quotidiani italiani a Frisco. Ma è nell’artigianato che eccelliamo, al solito: e tra gli eccellenti c’è, d’ora in poi, un certo Salvatore Ferragamo da Bonito in Irpinia che, nello stesso 1915, sbarcherà in America per raggiungere due fratelli e perfezionare le sue, già alte, conoscenze in materia di scarpe. Si trasferirà presto in quella zona (a Santa Barbara, prima e a Hollywood, dopo), fino al 1927: ripartirà per l’Italia che è già un maestro e prestissimo diventerà un mito. Del tipo di quelli che, in America, aveva conosciuti e frequentati, gente del cinema e dello spettacolo: tra tutti, compagno di chiacchierate e spaghetti, Rudolph “Valantino” (così recita la didascalia a mano di una foto di una cena della United Artists, del 1924, dove ci sono anche Chaplin, Mary Pickford, Douglas Fairbank e Buster Keaton).
Il contributo dell’Italia al mondo di celluloide e, di più, alla mitografia che esso è sempre stato capace di generare non è piccolo, e la mostra «L’Italia a Hollywood» al Museo Ferragamo di Firenze (molto bella, per il taglio e per la capacità di condensare in uno spazio non grande una notevole quantità di spunti) – a cura di Giuliana Muscio e Stefania Ricci, fino al 10 marzo 2019 – lo dimostra in maniera lampante.
È un tuffo nell’immaginario (e nella realtà) di quell’epoca davvero ruggente: la spinta degli studios per la nuova industria cinematografica è potente e, in pochi anni, Hollywood, da piccolo paesino, diventa la mecca del cinema. Dalle poche ville sparse allora nei dintorni, di Harold Lloyd, Pola Negri, Mary Pickford e dello stesso Rodolfo, i divi scendono lungo l’Hollywood Boulevard. Davanti a un cinema dove si tengono molte “prime”, Ferragamo ha installato la sua base: l’Hollywood Boot Shop, negozio preesistente, sì (e ripreso anche in un film), che verrà trasformato con gusto e capacità italiane: lì il «calzolaio dei sogni» eserciterà il suo fascino e il suo talento; i divi, glamour e stile, saranno i suoi migliori sponsor.
I lavori con il cinema, per lui, erano iniziati da subito: sulla scorta del celeberrimo kolossal «Cabiria» di Pastrone (didascalie di D’Annunzio), capolavoro del 1914 ammirato da Griffith, i film in costume arrivano presto in America e Ferragamo disegna le scarpe per attori e comparse. L’Italia, poi, ha dalla sua alcune figure chiave: icone immediate. Rodolfo Valentino, già detto, i due “prestiti” dalla lirica, il grande Enrico Caruso e Lina Cavalieri, la «donna più bella del mondo», il cui volto sarà immortalato da Piero Fornasetti qualche decennio più tardi. In una sala colma di suggestioni completa il poker la tostissima Tina Modotti nelle foto di Edward Weston, che esaltano «la bellezza e la sensualità contemporanea del suo corpo nudo». La mostra, che illumina anche figure meno note (il jazzista Nick La Rocca per dire) e ha delle puntate sull’oggi (bello il video di Yuri Ancarani), si chiude con l’omaggio a Ferragamo medesimo e al suo negozio. “Rientriamo” per un attimo tra le colonne e i divanetti damascati e Salvatore ci fa provare le sue scarpe, destinate a diventare un simbolo dei roaring twenties e una promessa di futuro per gli anni a venire. In quegli anni le portavano Gloria Swanson, Mary Pickford, Joan Crawford e Rodolfo; oggi una collezione limitata riproduce fedelmente forme, materiali e colori di quelle calzature: ciascuna con una sua storia, ciascuna con un certificato di autenticità. Per chi le indosserà oggi sarà come ritrovarsi per una sera nel “sogno americano” di Salvatore. Per tutti noi, quel sogno è qui, nel buio delle sale appena visitate, nei visi così forti di quei personaggi, nelle storie di quest’Italia che sapeva come farsi valere all’estero e come ridare slancio a un Paese che si riprendeva dalla guerra e che quel sogno lo vedeva nel grande schermo, commuovendosi o applaudendo quando appariva l’immancabile scritta “The End”.