Il Sole 24 Ore, 15 luglio 2018
Non è più tempo di stroncature
Ricorrente è l’appello a tornare alla stroncatura: ricordo un bel dibattito tra critici illustri (Guido Almansi, Massimo Mila, Nello Ajello) su «Tuttolibri» e «La Repubblica» nell’autunno del 1986. Si tratta di un legittimo genere letterario, illustrato, sin dal primo Novecento, dalle Stroncature di Giovanni Papini (moltissime edizioni dal 1916 al 1952), dalla ripresa di quelle di Jules Barbey d’Aurevilly, Stroncature: poeti, filosofi, romanzieri, accademici (tradotte presso Formiggini nel 1927), da quelle infine di Enzo Golino: Sottotiro: 48 stroncature, 2002 e 2013. È anche un genere classico, portato a canone da Catullo nel celebre carme XXXVI contro Volusio, risolto in perentorio incipit: «Annales Volusi, cacata carta» [«Annali di Volusio, carta immerdata» e pari explicit: «At vos interea venit in ignem, / pleni ruris et inficetiarum / annales Volusi, cacata carta» [«E voi intanto venite nel fuoco, / pieni di grossolanità e di sciocchezze, / annali di Volusio, carta immerdata»].
Ne avrebbero beneficio le effemeridi, sulle quali ristagna spesso mal bruciato incenso; ma molti ostacoli si presentano a parte subjecti e a parte objecti. Per l’autore del difficile esercizio ci vorrebbe nerbo e brevità: la stroncatura non è un ricamo, ma una staffilata; e in tempi di corsa alla visibilità, chi si accontenterebbe di 20 righe in un angolino della pagina? Eppure la forma epigrammatica è la più memorabile, come in Pasolini: «Prima del Nobel c’era su te silenzio sepolcrale: / oggi di te un po’ si parla: ma solo per dirne male» (A Quasimodo, da La religione del mio tempo, Appendice).
Ma anche a parte objecti manca la materia prima: “stroncatura” richiama il tronco, allude all’intento che si voglia divellere un fusto per estirpare con esso le male radici, e i frondosi rami, propaggini ombrose in cui fan nido queruli parassiti. Ma i tronchi non ci sono; la boscaglia delle Lettere è ormai come «la vigna di Renzo» dopo la peste: «E andando, passò davanti alla sua vigna; e già dal di fuori poté subito argomentare in che stato la fosse. (…) Era un guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro nell’aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso; una confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di cento forme, di cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini bianchi, rossi, gialli, azzurri. Tra questa marmaglia di piante ce n’era alcune di più rilevate e vistose, non però migliori (…)». Nella sterpaglia si finisce avviluppati; e se invece di troncare, si pota soltanto, le male piante anziché soffocare torneranno a respirare e vigoreggiare.
Certo ha ragione Montale quando osserva: «Uno scrittore d’oggi sente d’istinto che fra l’apologia e la stroncatura non corrono grandi differenze e che la sola cosa che conti è il rumore» (La fortuna del Pascoli, 1955; poi raccolto in Sulla poesia, 1976). Ma il Pascoli stesso sapeva distinguere il tonfo crudele del tronco della Quercia caduta: «Dov’era l’ombra, or sé la quercia spande / morta, né più coi turbini tenzona./ La gente dice: Or vedo: era pur grande!» dall’incurante profitto degli uomini: «Ognuno loda, ognuno taglia. A sera / ognuno col suo grave fascio va. / Nell’aria, un pianto… d’una capinera / che cerca il nido che non troverà». Dunque ogni tanto, per esempio dopo il crollo delle istituzioni del sapere, verrebbe voglia di bloccare qualcuno per via «col suo grave fascio» accattato, e porre qualche domanda e arrovesciargli il giornale -ben ripiegato- sulla guancia, come dicono facesse, indignato, Jean-Luc Godard quando qualche confrère gli chiedeva un parere su un proprio, del postulante, film mal riuscito. E, in verità, era già pronta una stroncatura con il suo titolo: Por el licenciado Gregorio, quando mi giunge – fresco di traduzione – uno dei saggi della mia lontana formazione, Lo spazio letterario di Maurice Blanchot (Il Saggiatore, 2018), nel quale rileggo, nella sua bella prosa finemente tradotta: «La lettura fa del libro quel che il mare e il vento fanno con le opere forgiate dagli uomini: una pietra più liscia, un frammento piovuto dal cielo, senza passato né futuro, sul quale non ci si interroga quando lo si vede. La lettura conferisce al libro l’esistenza brusca che la statua “sembra” dovere solo allo scalpello: quell’isolamento che la sottrae agli sguardi che la vedono, quella distanza altera, quella saggezza orfana, che congeda insieme lo scultore e lo sguardo che vorrebbe scolpirla ulteriormente. In un certo qual modo il libro ha bisogno del lettore per farsi statua, ha bisogno del lettore per affermarsi come cosa priva d’autore ma anche di lettore» (Leggere).
Ripongo allora la stroncatura, e penso –con Blanchot e Ungaretti – a quel sottrarsi al tempo: «O statua, o statua dell’abisso umano…» (Statua). La vera lettura non giudica ma scava: «in –o infinito – in noi! Quale che sia quel che siamo alla fine» (Rilke, Nona Elegia e Blanchot, Trasmutazione della morte). Per scavare, ci vuole materia, profondità: perché la resa sia un compimento. Il molliccio bituminoso del nostro tempo è assai poco consono a questi scavi; in essi ci si impegola. Tenere la mano netta dunque, sapendo – con Vittorio Sereni – che la poesia è opera di un secolo e di generazioni: «Ci vuole un secolo o quasi / – fiammeggiava Ungaretti sulla porta / della Galleria Apollinaire – / ci vuole tutta la fatica tutto il male / tutto il sangue marcio / tutto il sangue limpido / di un secolo per farne uno... // (Frattanto / sul marciapiede di fronte / a due a due sotto braccio tenendosi / a due a due odiandosi in gorgheggi / di reciproco amore / sei ne sfilavano. Sei)» (Poeti in via Brera). E che essa non tollera il superfluo, né il vano: «Tutto ciò che non è un quartetto / come quinto sarà scartato. / Tutto ciò che non è un quintetto / in quanto sesto sarà soffiato via. / Tutto ciò che non è un coro di quaranta angeli / tacerà come un guaito di cane e singulto di gendarme» (Wis?awa Szymborska, Il classico, da Ogni caso, 1972).