Il Sole 24 Ore, 15 luglio 2018
Rivivere dopo «Charlie Hebdo»
La sera del 6 gennaio 2015, Philippe Lançon, uno dei migliori giornalisti culturali francesi, collaboratore di «Libération» e «Charlie Hebdo», assiste in compagnia di amici a una rappresentazione della Dodicesima notte. La sortita è anche l’occasione per festeggiare in un bistrot l’invito appena ricevuto a tenere un corso di letteratura all’università di Princeton. Lançon, che ha cinquant’anni e, dopo un divorzio doloroso, vive una nuova relazione con una donna che abita negli Stati Uniti, è raggiante per l’opportunità offertagli. Di ritorno a casa, prima di andare a dormire, guarda un’intervista televisiva a Michel Houellebecq, di cui è in uscita il nuovo romanzo, Sottomissione, già in odore d’islamofobia. Lançon si chiede che domande potrà fargli quando, qualche giorno dopo, dovrà intervistarlo a sua volta per «Libération». L’esercizio giornalistico dell’intervista gli sembra inutile, pleonastico, a maggior ragione con uno scrittore come Houellebecq, la cui opera è sommersa dal fracasso mediatico. Il critico spegne la televisione per terminare la propria giornata nel silenzio.
Questa quotidianità da sofisticato intellettuale parigino, pervasa di socievolezza, edonismo e cultura, fu spazzata via la mattina dopo, per trasfigurarsi nella sopravvivenza precaria di un corpo e di una coscienza mutilati. Philippe Lançon era alla riunione di redazione settimanale di «Charlie Hebdo» quando i fratelli Kouachi irruppero nella sede del giornale e, al grido monotono di «Allah akbar!», massacrarono i presenti a colpi di kalashnikov. Fu lasciato per morto, in un lago di sangue, tra i cadaveri dei suoi colleghi e amici.
Le lambeau, il lembo (Gallimard, 2018), accolto in Francia come un libro catartico, con immediato successo di critica e pubblico, racconta il passaggio brutale tra queste due condizioni. Nelle prime cento pagine: l’antefatto innocente e l’esperienza dell’eccidio, lucida e irreale, sospesa in un tempo senza durata, vissuta come uno sdoppiamento tra l’io a suo modo integro del passato e un io ridotto a brandelli, che sarà ormai l’io del presente, se non del futuro. Nelle quattrocento pagine che seguono, la scrittura ricuce pazientemente i lembi di questo nuovo io, così come i chirurghi hanno tentato di ricostruire con decine di operazioni il volto mutilato dell’autore (la mandibola è stata tranciata dalle pallottole, per ricostruirne un’altra vengono prelevati ossa e tessuti da diverse parti del corpo). Ad accompagnare l’autore nel suo cammino purgatoriale non sono solo i medici e gli infermieri, ma gli amici, i familiari, gli amori passati e presenti, i poliziotti della scorta che veglia su di lui giorno e notte, gli altri malati: una vasta galleria di personaggi tratteggiati con penna a volte carezzevole, altre pungente, secondo la migliore tradizione di quel genere un po’ perverso che è il romanzo ospedaliero.
Lançon è rimasto ricoverato per nove mesi, sette dei quali agli Invalides, lo storico ospedale militare dove, dal Seicento, vengono sbarellati i feriti di tutte le guerre francesi. La sua immedesimazione in questo tempio della sofferenza è totale. Lo chiama «il mio castello», ne ripercorre in lungo e in largo le ali e i cortili, è fiero di riceverci amici e parenti, come se ne fosse il proprietario.
Forse, è proprio la sua identificazione atemporale con questo luogo a permettergli di non sovrapporre al proprio volto sfigurato la maschera della vittima. L’attualità, col suo strascico di polemiche sull’Islam, è tenuta a distanza. Durante la sua degenza Lançon non legge i giornali e non guarda la televisione, gli unici libri che gli tengono compagnia sono, consultati giorno dopo giorno come oracoli, la Recherche, le lettere di Kafka a Milena e La montagna incantata. L’esperienza di un trauma che si pensava possibile solo in guerre lontane nel tempo o nello spazio spinge alla ritrosia e al raccoglimento. Retrospettivamente, la scrittura porta la traccia di questo apprendistato della distanza: rigetta la velocità giornalistica e gli effetti di “presa diretta” a beneficio della lentezza, della meditazione digressiva. L’esito, agli antipodi di certa letteratura testimoniale e vittimaria, è una narrazione a tenue intensità emotiva, che non rinuncia all’ironia e rivendica il proprio diritto alla sospensione del giudizio.
È raro che un’opera letteraria possa qualcosa contro la violenza. Se l’autore antiretorico del Lembo riesce, quasi suo malgrado, in questo intento, è per la sua determinazione a non indagare le cause del male, a descriverne le sole conseguenze sulla propria pelle. Così circoscritta all’anatomia dei suoi effetti, la violenza subisce una reductio ad absurdum che nessuna interpretazione storica o filosofica, nessuna spiegazione sociologica o giornalistica potrà ribaltare.
Ma, come mostra un apologo nelle ultime pagine del libro, Philippe Lançon è uno scrittore troppo lucido per trarre una vera consolazione dal libro, bello e importante, che ha scritto.
Poco settimane prima di essere dimesso dall’ospedale, l’autore del Lembo anticipa il proprio ritorno in società partecipando alla festa di un’amica editrice. Mentre si aggira con disagio tra gli invitati, scorge in un angolo Michel Houellebecq, anche lui sorvegliato da un poliziotto di scorta. I due uomini si stringono la mano, farfugliano qualcosa sugli attentati. Houellebecq, il cui disfacimento fisico è da anni un fenomeno iconico, appare a Lançon come carico del peso di tutta la disperazione del mondo: un essere ormai senza sesso e senza età, che ha risalito il corso del tempo fino a trasformarsi in un animale preistorico. Prima di congedarsi, l’autore di Sottomissione lo fissa a lungo con il suo sguardo da dinosauro e, parafrasando un enigmatico versetto del Vangelo secondo Matteo, gli sussurra: «Alla fine sono i violenti ad averla vinta».