Il Messaggero, 15 luglio 2018
Così a Budapest morì la borghesia
E a Budapest cosa succedeva nei giorni dell’Anschluss? Come reagì la seconda capitale dell’imperial regia monarchia il giorno in cui Hitler entrò a Vienna e mise fine all’indipendenza austriaca? Budapest, la regina del Danubio, aveva condiviso con l’altra capitale asburgica i fasti del potere imperiale, da quando a metà del XIX si era vista riconoscere l’autonomia politica. Ma l’espansione della città, passata in pochi decenni da 300 mila a un milione di abitanti, si era interrotta bruscamente con la Grande guerra, la sconfitta e il crollo dell’Impero.
Sconfitta l’Ungheria, Budapest divenne la capitale della Repubblica dei Consigli di Béla Kun, spodestata dall’ammiraglio Horthy che si autoproclamò Reggente del Regno di Ungheria, e fini per allearsi con le potenze dell’Asse pur di riconquistare i territori perduti. Eh sì, perché nel 1920 il Trattato di Trianon aveva ratificato la perdita di due terzi del territorio ungherese e di quasi metà della popolazione: l’Alta Ungheria passò alla Cecoslovacchia, la Transilvania alla Romania, Croazia, Slavonia e Voivodina furono unite nel Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Per gli ungheresi fu uno choc. Certo, Budapest manteneva le apparenze di metropoli della Mitteleuropa, con le sue terme leggendarie sul Danubio, le piscine con le onde artificiali, i giardini lussureggianti dell’Isola Margherita in mezzo al fiume, tra i due sobborghi uniti dal Ponte delle Catene, che da metà Ottocento formavano un’unica città, la collina di Buda sulla riva occidentale, dove i re magiari avevano costruito le prime fortezze, e la pianura di Pest, centro commerciale sulla riva orientale.
LE DIMISSIONI
La notizia delle dimissioni del cancelliere austriaco Schuschnigg arrivò a Budapest una tranquilla sera di inizio primavera ed trovò un testimone d’eccezione. Lo scrittore Sandor Marai, all’epoca aveva trentott’anni. Era uno dei giornalisti più alla moda della città, nato a Kassa, da un ex senatore del Partito socialista cristiano nazionale, tedesco di origine, Grosschmid de Mara, era un borghese cosmopolita che aveva studiato a Berlino, era vissuto Parigi, aveva viaggiato per l’Italia. Nel pomeriggio di quel 13 marzo 1938 era andato al giornale in automobile, e si era messo a scrivere senza fatica uno dei suoi soliti articoletti. Sportivo, metodico, lievemente ossessivo, ma tranquillo e di buon carattere, considerava quel lavoro uno svago rispetto alla sua principale occupazione, che consisteva in scrivere romanzi e alla quale si dedicava ogni mattina, concentrandosi su non più di trentacinque righe. Non sapeva di stare per vivere un momento storico che avrebbe cancellato per sempre non solo la sua esistenza, ma la sua identità. Quando un collega, pallido come un cadavere, gli diede la notizia, non disse nulla. Quella sera rincasò tardi.
Verso le due di notte attraversò il Ponte delle Catene e, arrivato a Buda, vide una fila di tre auto impolverate con targa austriaca, davanti a un garage, e alcune donne che scesero con dei bambini per mano, mentre un uomo avvertiva di non lavare le automobili, perché avrebbero ripreso il viaggio l’indomani. Erano profughi viennesi. Ma gli ci vollero dieci anni per capirlo, con tutte le conseguenze del caso. E infatti Volevo tacere è il libro che scriverà solo nel 1944, lasciando in parte inedito fino al 1972 (Adelphi l’ha appena tradotto) per raccontare quella notte del marzo 1938, come se fosse un romanzo, il romanzo della sua vita perduta e della morte della borghesia ungherese. Marai ricorda la strana paura che aleggiava in Germania e per questo non sembrava reale, descrive la banale vita quotidiana a Budapest di uno scrittore famoso, le passeggiate lungo i Bastioni, un’ora di tennis all’Isola Margherita, due tre vasche in piscina, il lavoro al tavolino nel suo appartamento di Mika Utca, una viuzza nel quartiere di Krisztina, quattro chiacchiere al Central Cavehaz, e la sera spesso a teatro (la topografia è fedelmente ricostruita da André Reszler, I luoghi di Sandor Marai, Unicopli 2009).
L’ACCUSA
Ma in questa rievocazione piena di rabbia e di nostalagia, della sua vita a Budapest, Marai si abbandona a una sorta di confessione che è anche un atto di accusa nei confronti dell’Ungheria. Una nazione vinta dalla storia, sconfitta dalla guerra, ma pronta a tradire se stessa alleandosi col nazifascismo pur di riprendersi i territori perduti. E infatti, per un ungherese come lui che è nato a Kassa, oggi Kosice, una cittadina dell’Alta Ungheria passata alla Cecoslovacchia, il Trattato di Trianon è la pietra dello scandalo, il punto di non ritorno dell’ignominia nazionale e dell’ingiustizia storica. L’Alta Ungheria e la Transilvania sono infatti le uniche province state risparmiate dalla dominazione turca, durata un secolo e mezzo, e dove per questo motiva si era potuta sviluppare una borghesia in senso moderno e occidentale, un ceto sociale geloso della libertà e dei suoi diritti, di cui l’Anschluss segnerà la definitiva rovina.
Non lo sapevo, come non sapevo molte altre cose scriverà Marai nel suo diario retrospettivo sul dramma dell’Anschuss. L’uomo però comprende il suo destino anche con le viscere. E infatti quel giorno, mentre scrivevo di malavoglia il mio pensum, probabilmente il mio fegato e la cistifellea sospettavano qualcosa che la ragione ignorava, o forse non osava pensare: che scrivevo quelle righe per niente. È così che quella sera di marzo 1938, sotto il cielo stellato della tiepida primavera danubiana, a Budapest, nasce con un grande scrittore europeo l’autocoscienza di una perdita irreparabile, e un senso di rovina destinato a diventare irreversibile.