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 2018  luglio 14 Sabato calendario

Gilberto Gil: «Suonare Refavela per i giovani è stata una benedizione»

Gilberto Gil è in Italia - oggi a Perugia per Umbria Jazz, lunedì al Teatro Goldoni di Venezia, mercoledì 18 a Monforte d’Alba per Monfortinjazz - con un concerto che fa rivivere l’album Refavela, uscito nel 1977. «Un disco nero per gente di tutti i colori», come si scrisse allora, uno dei suoi più memorabili, il più africano. Ne parliamo on the road, mentre lui è in viaggio per Perugia sul tour bus con i componenti della sua vasta banda.

Maestro, chi ha avuto l’idea di questo tour nel quarantennale di «Refavela», partito dal Brasile lo scorso settembre e ora giunto in Europa?
«L’idea è di mio figlio Bem. Ha 33 anni, è musicista, suona la chitarra con diverse band brasiliane, è produttore. Soprattutto, ama Refavela, dei miei numerosi dischi forse è il suo preferito, per diverse ragioni, per il contenuto ritmico, perché ha a che fare con la cultura africana, perché ci sono molti elementi della musica di Bahia. È lui che mi ha detto: perché non lo riportiamo in vita? Perché non lo suoniamo dal vivo e ci aggiungiamo canzoni nate nel medesimo contesto? Ha invitato un po’ di musicisti suoi amici, tutti tra i 30 e i 35 anni, e ha organizzato la festa di compleanno. Poi, alla fine, ha invitato pure me».
Come nacque quell’album?
«Nel 1977 fui invitato a Lagos, in Nigeria, al festival chiamato Festac, che fece incontrare per un mese moltissimi musicisti, scrittori, ballerini, teatranti neri da ogni parte del mondo. Il posto in cui stavamo, che ora ci chiama Festac Town, era stato progettato per assomigliare alle favelas brasiliane. Tornato a casa, non potei non notare il parallelismo: misi insieme i ritmi africani e le musiche del mio Paese nell’album che chiamai Refavela».
Suonare quelle canzoni 40 anni dopo vuol dire che le condizioni di vita nelle favelas sono sempre le stesse?
«Qualcosa è cambiato, ma poco, troppo poco. Le favelas sono cresciute, ora c’è qualche servizio in più, ma rimangono luoghi in cui è molto difficile vivere. L’assistenza dello Stato è caotica a Rio e anche in altre città: ora c’è qualche scuola in più, qualche posto di lavoro è stato creato, ma le relazioni con le persone che non vivono nelle favelas sono ancora difficili. La situazione di fondo è la stessa di allora».
L’avrebbe mai immaginato, 40 anni fa?
«È questo il problema. Venti, trent’anni fa speravamo che la società, anche grazie alla tecnologia, potesse solo migliorare. Avevamo vissuto una rivoluzione dei comportamenti e dei costumi, la democrazia sembrava doversi diffondere nel mondo intero, annunciata da nuove forme di comunicazione. Ora non si può non vedere che molti problemi sono rimasti immutati, o peggiorati. La distribuzione della ricchezza, per esempio, la povertà, l’intervento dello Stato che ha deluso le promesse di inclusione e di un maggiore peso politico delle classi sociali più basse».
Accennava prima alle nuove forme di comunicazione…
«Internet ha deluso le speranze di libertà, non ha fatto altro che aumentare la dimensione individualistica dell’umanità. In tutto il mondo vediamo crescere sentimenti egoistici come il razzismo, il sessismo. Le nostre speranze di un tempo a tanti sembrano vuote, deboli».
La domanda è sempre quella: che fare?
«La solita cosa: non smettere di lottare, con la politica, l’attivismo sociale e per l’ambiente, la scienza e la tecnologia. Cercare di sviluppare nuove strategie contro la povertà e l’ingiustizia e tener duro, se credi che il mondo abbia il dovere di migliorare».
È stato incarcerato ed esiliato ai tempi della dittatura, l’impegno politico ha accompagnato la sua musica al punto che per sei anni, con Lula, è stato ministro della Cultura del suo Paese. È stato tutto inutile?
«No, questo no. Quando ho deciso di dedicare una parte della mia vita alla politica, ho pensato che le idee che m’ero fatto sulla cultura non potessero che passare attraverso le istituzioni. Un po’ ci speravo, un po’ sentivo il dovere di farlo. Non ci si può sottrarre, se te lo chiedono. Per sei anni mi ci sono dedicato completamente. Non so fare un bilancio, posso dire però che ce l’ho messa tutta».
Che cosa accadrà a Lula?
«Il 30% della popolazione brasiliana, quindi il 30% di 200 milioni di persone, pensano che Lula dovrebbe poter partecipare alle elezioni di ottobre, e di conseguenza uscire dal carcere. Il problema è che in prigione l’ha mandato un sistema giudiziario costituzionale, non una dittatura. Molti credono però che lui sia innocente, che la giustizia sia formale, in questo caso non sostanziale. È un pasticcio. Non so come si risolverà».
Lei cosa ne pensa?
«Sto con quel 30%. Credo che Lula debba poter concorrere alle elezioni».
Tornando alla musica, con lei in questo tour c’è una cantante italiana, Chiara Civello.
«Chico Buarque, Caetano Veloso, io… Molti brasiliani hanno costruito nel tempo un legame forte con i musicisti italiani, e Chiara è un bell’esempio di questo legame. È bravissima, e mio figlio ha fatto bene a invitarla in questo concerto. Non dimentichi che io sono solo un ospite, non ho fatto gli inviti».
Come si trova allora con questi trentenni?
«Hanno più o meno l’età che avevo io quando scrissi Refavela. Sono giovani, ma hanno ascoltato una quantità di musica che allora avrei solo potuto sognare. Vedo in loro una nuova forma di comprensione, un’energia diversa. È una benedizione poter condividere la mia musica con loro, mescolare le mie vecchie energie con quelle giovani».
È la globalizzazione buona.
«Lo è. È la parte buona della nuova civiltà globale».