il Fatto Quotidiano, 14 luglio 2018
«Manipolo il pubblico come fanno i politici». Intervista all’autore de “La Casa di Carta”
“Bisogna andare avanti”. È l’ultima battuta che si scambiano i rapinatori della Zecca di Madrid nell’episodio finale della seconda stagione de La casa di carta prima di essere liberi e milionari. Ed è la promessa di Álex Pina, autore della serie più vista su Netflix, al pubblico. “La terza stagione è pronta e sarà ancora più potente”, giura ora che ha firmato un contratto in esclusiva per la piattaforma streaming. Ma ammette che “vista la forza dell’ultima scena non è stato facile trovare un inizio altrettanto convincente”.
Può anticipare qualcosa?
No, ovviamente. Abbiamo passato mesi a pensare come iniziare, come riallacciare la storia di personaggi ormai milionari. L’incipit che abbiamo trovato non deluderà nessuno.
“Il professore”, cervello dell’attacco, spiega alla banda che è importante che risultino simpatici, perché la gente capisca che sono i moderni Robin Hood.
La serie ha come tema la manipolazione, non solo nei confronti dell’opinione pubblica. Ma anche degli spettatori. Abbiamo manipolato costantemente il fulcro morale. Berlin, ad esempio, è un personaggio egocentrico e misogino che avrebbe tutti i presupposti per risultare antipatico, eppure il pubblico lo adora.
Lo stesso marketing che utilizzano i politici.
Sì, è quello che vediamo tutti i giorni. Ed è proprio nei paesi in cui è più alto il livello di scetticismo nei confronti dei politici che la serie ha funzionato di più: Argentina, Brasile, Italia…
Ha avuto molto successo anche se è molto spagnola.
Lo è, ma parla una lingua universale: c’è una “famiglia” chiusa in una casa con tutto quello che questo comporta. Sicuramente La Casa di Carta non è una serie di genere puro. È tutto nuovo, e si muove in un ambito di cultura pop.
C’è anche Almodovar, ma su personaggi più semplici.
Sì, sono personaggi molto riconoscibili, provenienti dalla periferia, da strati sociali bassi, che in comune con Almodovar hanno una stravaganza, una singolarità. Ma sono anche molto tristi, estromessi dalla società. Questo perché non dovevano avere niente da perdere nell’attacco alla Zecca.
Nell’anno del #MeToo, il personaggio di Tokyo non è femminista, ma è una donna con la D maiuscola.
Volevamo sovvertire una narrazione tipicamente maschile di un colpo così. Per questo abbiamo scelto il punto di vista più emotivo di una donna, che fosse anche il narratore onnisciente e che guidasse lo spettatore. È quello che avvicina la serie più a Luc Besson che a quelle Usa.
Qual è la sua serie preferita in assoluto?
Sono due in realtà: Breaking Bad, perché ha segnato un prima e un dopo del genere; e Californication, molto importante per l’aspetto emotivo de La Casa di Carta.
Ha appena firmato un accordo in esclusiva con Netflix. Com’è lavorare con una produzione così grande e una platea enorme?
È stupendo. Soprattutto perché quando Netflix ha bussato alla nostra porta avevamo già La Casa di Carta sulla loro piattaforma e ci chiedevano di lavorare come già stavamo facendo: disegnare personaggi molto forti, con un ritmo frenetico e la libertà creativa, per rompere gli schemi e scoprire nuove frontiere. Che poi è quello che fidelizza il pubblico delle serie.
Cosa ci aspetta oltre alla terza stagione de La Casa di Carta?
Sky Rojo una serie che rompe gli schemi del tempo reale. È come se un film si sviluppasse tutto nel terzo atto, che poi è quello che tutti si godono di più. Sarà una serie molto tarantiniana
La Spagna sarà il paese dove nasce il nuovo modo di fare serie al posto degli Usa?
Per questo ci vorrà tempo, ma credo che anche in Spagna, nei paesi scandinavi e in Italia stia succedendo qualcosa che porterà a una buona concorrenza. Poi, vincerà il migliore.
Le serie sono il nuovo cinema?
È così. Sono il romanzo del Terzo millennio.
Tornando a Almodovar, lui non la pensa così.
Lo so. Come molti che fanno cinema. Ma è così. Mia figlia vede solo serie, su ogni dispositivo. Dalla mattina mentre va a scuola sull’iPad, alla sera davanti alla tv. Il futuro è questo.